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Italo Svevo, tra sospetto e realtà

Italo Svevo  (Trieste, 19 dicembre 1861 – Motta di Livenza, 13 settembre 1928)   nasce  in un’agiata famiglia ebrea, vive a Trieste, crocevia culturale, che dà all’autore la possibilità di formarsi con i grandi maestri del sospetto: Schopenauer, Nietzsche e Freud. Lo pseudonimo stesso di Ettore Shmitz, ovvero Italo Svevo, rivela la duplicità culturale dello scrittore: per metà italiano e per metà tedesco. Egli vive a cavallo tra la fine della grande tradizione ottocentesca e l’affermazione della psicoanalisi e dello studio sull’inconscio: non si crede più nella realtà, dunque si inizia a sospettare il mondo e l’uomo. Sono gli stessi anni in cui Lacan parla dell’inconscio come linguaggio. Non esiste più una sola verità cui credere e la fiducia nella scrittura inizia a vacillare. Possiamo distinguere nella sua vita e nella sua attività letteraria tre fasi:

Italo Svevo: giovinezza e formazione letteraria

Nel 1880 in seguito ai dissesti finanziari del padre, Italo Svevo è costretto ad impiegarsi in una banca di Trieste. Il suo interesse letterario lo porta a leggere i romanzi francesi (Balzac e Zola) e i classici italiani (da Boccaccio a Guicciardini). In questo periodo ha una relazione con Giuseppina Zergol (l’Angiolina di “Senilità”). Alla morte del fratello nel 1886 non si allontana dagli interessi letterari e lavora a un romanzo intitolato dapprima “Un inetto”, poi “Una vita” (1892). Alla morte del padre, incontra la cugina Livia Veneziani, che sposerà quattro anni dopo: figlia di un grande industriale, che dirige una fabbrica di vernici per navi. Livia appartiene a quella borghesia solida e ricca di fine 800, classe sociale a cui Svevo sente di non appartenere. Da qui, si fa forte la consapevolezza della distanza culturale che intercorre tra lui e la moglie che resta ignara di tali inquietudini.

Nel 1898 Italo Svevo pubblica a puntate sullIndipendente” il suo secondo romanzo “Senilità”, ma il matrimonio con Livia sembra destinato ad allontanarlo dalla letteratura. Nel 1889 entra a far parte della ditta di famiglia annunciando solennemente il proposito di abbandonare la letteratura, impegnato com’era nell’attività industriale, che lo porta sino in Inghilterra dove conosce James Joyce, di cui diventa un amico intimo.

“Una vita” (1892): protagonista è l’impiegato Alfonso Nitti, che si sente diverso dai sui contemporanei e vorrebbe apparire superiore dato che legge  il latino e ama le poesie. Egli invece di perseguire la funzione dell’uomo intellettuale (idea ormai decaduta) è costretto a fare il copista in una banca, con mansioni ripetitive e automatiche. Volenteroso di un riscatto sociale decide di sedurre la figlia del padrone della banca, anche lei fervida lettrice. Ma a questo punto, il meccanismo dell’affermazione sociale s’inceppa, perché il protagonista è un inetto, incapace di approfittare delle situazioni favorevoli. Preso da un’inspiegabile paura, senza avvertire Annetta, scappa dalla madre (che trova morta), pur essendo consapevole del fatto che a causa della sua fuga e del suo silenzio perderà la donna amata. Annetta, infatti, sposa Macario, un giovane brillante e disinvolto, rivale di Alfonso Nitti. Il protagonista, invano, cerca di riallacciare i rapporti con la donna, scrivendole una lettera che è interpretata dai suoi familiari come un tentativo di ricatto.

Il fratello di Annetta decide di sfidare Alfonso a duello, ma lui, rifiuta la lotta, preferendo il suicidio. In questo primo romanzo sveviano manca del tutto la componente estetica e decadente di fine 800, tipicamente dannunziana. Svevo appare come un moralista senza una morale, ed è completamente assente un’ideologia precostituita.

“Senilità” (1898): il protagonista Emilio Brentani pur essendo un letterato come Alfonso Nitti, non si oppone alla “normalità”, ma accetta la sua condizione di borghese. Egli è consapevole di vivere in un conflitto che non è più tra l’io e la società, come in “Una Vita”, bensì tra desiderio e repressione. È presente una lotta che si svolge tutta all’interno del personaggio il quale, trovandosi dinanzi ad una scelta, finisce per piegarsi sulla repressione del proprio piacere. Emilio Brentani trascorre un’esistenza senile, opaca e grigia. Sogna però un’avventura “facile e breve” come quelle di cui è esperto l’amico Stefano Balli, scultore fallito ma dongiovanni fortunato. Quando Emilio conosce Angiolina, una bella popolana, sembra che la vita gli conceda finalmente tale possibilità. Finisce per idealizzare la donna e quando si rende conto che la ragazza in realtà non ha nulla di angelico, gli appare solo come rozza e volgare. Tenta invano di lasciarla ma non riesce più a fare a meno della sua giovinezza. Angiolina s’innamora di Balli, il quale amore è corrisposto. Emilio decide per questo di allontanare l’amico dalla sua casa, e Amalia, sorella di Emilio travolta dal dispiacere ricorre all’etere, contraendo una grave polmonite.

Emilio decide di abbandonare anche Angiolina, e si troverà solo senza le due donne: si chiude in un’ermetica senilità dalla quale non è mai uscito per davvero. Emilio è privo di coraggio e decisione, l’unico modo per sconfiggere la senilità sarebbe stato mettere in discussione la propria vita normale e piatta, cosa che non riesce a fare. Avverte la spinta dell’Eros, ma vorrebbe renderlo disciplinato e stabile. Il romanzo è costruito su un quadrilatero perfetto di personaggi: da un lato due uomini contrapposti: Balli ed Emilio; dall’altro due donne altrettanto contrapposte: Angioina e Amalia, che rispecchia mali e debolezze del fratello.

Il silenzio letterario (1889-1918)

Nel 1889 annuncia solennemente di abbandonare la letteratura. Il suo silenzio però è tutto da interpretare: egli aveva provato a essere un grande scrittore in stile ottocentesco, con i romanzi “Una vita” e “Senilità”, ma non ebbero il successo sperato. Si può affermare, infatti, che D’annunzio e Svevo pur essendo coetanei siano diametralmente opposti: il primo chiude il vecchio mondo letterario ottocentesco, il secondo ne apre uno nuovo, fondato sul romanzo d’avanguardia, ispirato a Proust e Joyce.

Svevo non abbandona mai la penna, infatti, scrive note, appunti, scarabocchi, persino un diario. In una pagina del suo diario del 1902 ci fornisce la prova più lampante di quanto non voglia smettere di scrivere: l’autore scrive di aver chiuso con la scrittura ma contemporaneamente ne sta scrivendo. Non può chiudere i conti con la letteratura perché essa è il nostro infinito in terra (Leopardi). Dal momento che l’uomo scrive, la sua memoria resta ai posteri, diventa eterna. Lo scrittore triestino non smette di scrivere, affermando che scribacchiando scribacchiando la penna trascese, è proprio da qui, che prende vita “La coscienza di Zeno”.

Il ritorno alla letteratura

Nel giro di tre anni Italo Svevo scrive “La Coscienza di Zeno” pubblicata nel 1923. Fu Joyce ad adoperarsi per far conoscere l’opera tra i critici francesi, mentre in Italia, fu Montale a farlo conoscere al pubblico, grazie ad un articolo sulla rivista “Solaria”. Sino ad allora Svevo è relegato nell’oblio letterario, sia perché ritenuto fuori dalle tendenze imposte tra le due guerre (letteratura aurea, e lirica pura), sia perché il pubblico italiano del 1923 è ancora lontano dalla teoria freudiana, dunque non ha le basi per poter comprendere il grande capolavoro sveviano.

LA COSCIENZA DI ZENO (1923): Nella prefazione il dottor S., psicoanalista di Zeno Cosini, afferma di voler pubblicare per vendetta le memorie del suo paziente. Zeno Cosini, il protagonista del romanzo, proviene da una famiglia agiata, vive nell’ozio e nel rapporto conflittuale con il padre. Egli prova un costante senso d’inquietudine e inadeguatezza che interpreta come sintono di una malattia nevrotica. Sulla base di ciò egli compirà delle scelte che possono sembrare frutto del Caso. Infatti Augusto Buzzi interpreta il romanzo attraverso la chiave di lettura del Caso, affermando che non lo si deve confondere con la casualità.

Zeno sceglie in prima persona le proprie azioni, ma è il Caso a definirne le conclusioni. Ciò è chiaro quando Zeno cerca moglie e sceglie la casa Malfenti, come luogo in cui trovarla; ma lascia al Caso la decisione su quale delle tre figlie debba essere sua moglie. Se mi è concesso un appunto, mi soffermerei in particolar modo sull’interpretazione di Mazzacurati che paragona l’ordigno di cui parla Svevo, con la penna. Per questo motivo in un senso freudiano potremmo affermare che non è il Caso a decidere, bensì l’esplosione costante di un ordigno che apre le porte dell’inconscio e permette la fuoriuscita di quei desideri spesso dannosi. Infatti, la penna di Italo Svevo è come un bisturi che incide in profondità e infetta con le sue manie chiunque tocchi.

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