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Fuoco fatuo

‘Fuoco fatuo’: dal romanzo di La Rochelle al film di Joachim Trier ‘Oslo, 31 agosto’, uno scrigno di solitudine minimalista

‘Perché?’, è la domanda che segue una morte improvvisa – ma un suicidio è davvero imprevedibile? Ci si può intromettere o si assiste e basta a un gesto di libertà talmente autentico e disperato da essere uno degli ultimi tabù della nostra civiltà? Una pallida estate, un volto luminoso in una notte sottile e limpida come dopo un pianto, una città viva, ma riservata, i tram che scivolano sui binari, la fauna discreta, quindi i parchi grandi e vuoti nelle prime ore del mattino. Sopra tutto ciò quella domanda riecheggia: “perché?”. L’ambientazione spaziotemporale scelta da Joachim Trier per riadattare Fuoco fatuo, romanzo del 1931 di Pierre Drieu La Rochelle, è riassunta nel titolo del suo film: Oslo, 31 Agosto. Non la lirica maestosa della Parigi novembrina del romanzo francese, ma uno scrigno di solitudine minimalista, tuttavia coerente con la finezza originale.

La dolcezza efferata e l’affilata delicatezza di Fuoco Fatuo ne fanno un racconto irripetibile, insopportabile, vertiginoso. La cronaca intima delle ultime ore del giovane Alain, creatura di cristallo, sono di un’eleganza talmente pura da risultare violenta: impossibile restargli indifferenti. La paura nello specchiarsi dentro l’abisso esistenziale del ragazzo è quella di riconoscersi; come infatti fanno tutti i personaggi del libro, i quali vedono i presagi, ma non sanno intervenire.

Leggere Drieu La Rochelle fa sentire in colpa per non aver impedito, anche da postumi, il suo suicidio. Gli errori e le domande risuonano nelle ecolalie di Alain, la ripetizione crea una dissonanza che non produce alcuna armonia, ma pure ai nostri distanti e disillusi orecchi appare una commovente sinfonia di autodistruzione. Un disco che ad ogni giro di grammofono si deteriora. Fuoco Fatuo è un racconto sul suicidio visto da dentro; un racconto su quel distacco dalla vita che anticipa la morte; un racconto su una fine affrettata in modo insensato e subitaneo eppure premeditato e circostanziato; un racconto su coloro che assistono alla disgregazione di un essere umano. La vivisezione intollerabile dell’innocenza ipocrita di quanti vedono un amico o un amato perdersi.

La distruzione è il rovescio della fede nella vita; se un uomo, superati i diciotto anni, è capace di uccidersi, significa che è dotato di un certo senso dell’azione. Il suicidio è la risorsa degli uomini la cui molla è stata corrosa dalla ruggine, la ruggine dell’esistenza quotidiana. Sono nati per l’azione, ma l’hanno ritardata; allora l’azione si ritorce su di loro per contraccolpo. Il suicidio è un atto, l’atto di chi non è riuscito a compierne altri.
Alain non sa vivere perché non vuole vivere, non ha fede nella vita; così inizia a distruggersi prima nell’amore per le donne, che desidera eppure respinge, poi nella droga, che respinge eppure desidera, infine con un risolutivo colpo di pistola. Ciò che lo consuma, come un ingranaggio fuori posto che corrode il meccanismo, è la distanza che avverte tra sé e il mondo. L’inazione unita a un carattere d’azione rende insopportabile la consapevolezza di un fallimento in realtà desiderato; la condanna di Alain è capire, essere assolutamente lucido di non saper essere ciò che vorrebbe: necessario.
Le donne e gli amici che lo lasciano andare via sono tutti coloro che nella vita ha incontrato e dai quali, come anche nel suo ultimo giorno, si è sempre volontariamente allontanato. La sua condanna è quella di una timidezza estrema, che lo costringe a esaminare continuamente sé e gli altri; un egocentrismo delicato, ma imperativo, che gli rende impossibile non giudicare tutto e tutti. La mediocrità che si attribuisce gli rende di rimando disgustoso il mondo e a forza di tenersi a distanza, finirà per riconoscere anche il tocco della pistola come un contatto, il morso del proiettile come un ultimo, tremendo bacio.

Il film di Trier non è charmant come il romanzo Fuoco fatuo e la sua secchezza ribalta la direzione dell’alienazione; siamo con il protagonista, Anders, meno irraggiungibile e raffinato del dandy pre-esistenzialista di Drieu La Rochelle, ma altrettanto incomunicabile. Se nel romanzo assistiamo alle inarrestabili peregrinazioni mentali di Alain, in un flusso costante di pensieri e parole che lo tormentano, nel film domina un silenzio quasi opprimente. Non solo quello del protagonista; tutti attorno a lui sono terribilmente soli, e anche la città dentro la quale si muove è bella, malinconica e muta. Le due opere sono due metà della stessa perfetta sfera, il romanzo francese è la narrazione interiore del film scandinavo. Anders è come il protagonista appare all’esterno: dolce, taciturno, impassibile; Alain è come il protagonista appare a sé stesso: mediocre, verboso, spaventato. Entrambi, soli. Se si incontrassero non si riconoscerebbero. Questa assonanza di assenze rende evidente il male di Anders/Alain, ma anche di Pierre e forse il nostro: come Drieu La Rochelle nel suicidio dell’amico Jacques Rigaut (cui il romanzo è ispirato), anche noi specchiandoci nella vicenda del protagonista possiamo spaventarci riconoscendo sintomi, diagnosi e prognosi di un comune destino. Il riflesso non rivela un male catartico, ma una condanna. Non è giusto che un racconto del genere sia così bello, pregno di un dolore tanto più grande quanto più distaccato e dignitoso.

Fuoco fatuo è forse troppo fragile per essere un classico, ma è il Memorie dal Sottosuolo del ‘900. Pierre Drieu La Rochelle è un Dostoevskij esangue e diafano che non è mai tornato dalla Siberia, sprofondato nell’inverno eterno del genio e ferito per sua stessa mano. Come il russo, anche il francese comprende che ciò che ci accomuna non è in cielo, né in superficie, ma negli abissi; là si immerge, nell’oblio sordo che custodiamo nelle viscere, e cattura l’inquietudine di un uomo, di un secolo, di una civiltà, li incarna, poi li uccide e li imbalsama. Il risultato è che a quasi novant’anni di distanza, Fuoco fatuo non è invecchiato di un giorno.

Occorre passeggiare sui vetri rotti, sotto la luna fredda di un Occidente già tramontato. Rimozione è il secondo nome del dolore. L’edonismo dell’eterno piacere, dell’adolescenza perenne, non può accettare che esista alcun guasto nella maschera tremenda della distrazione. Le mele ammaccate restano invendute. L’uomo deve distaccarsi da sé, pagare per ingrassare e poi pagare per dimagrire, nel mentre lavorare, produrre, perché altri mangino e poi corrano, volere per volere, non costruire, ma stuprare, non costruire, ma desiderare e poi bere, drogarsi, distruggersi. E poi ci stupiamo che i ragazzini muoiono per la religione? Quello di Alain è almeno un gesto – disperato, folle – affermativo. Oggi il suicidio rischia di sembrare solo una rimozione, la spazzatura che leva il disturbo dopo essersi esaurita. La lettura sconsigliata di Drieu La Rochelle è necessaria per ridare al gesto la dignità e l’insensatezza che invece gli competono. La scelta è irrazionale e blasfema al punto da apparire sacra: e Dio sa se abbiamo bisogno di comprendere cosa questo significhi. O forse non importa più, forse è tardi; forse siamo talmente morti da non capire davvero perché qualcuno arrivi ad uccidersi. Osserviamo e ci spaventiamo; dopo, sono solo altri silenzi, rimpianti ipocriti o gessetti colorati.

Nessun giudizio, nessuna colpa, sarebbero onesti. Chi scrive è colpevole quanto Alain per il suo profondo narcisismo, quanto i suoi amici per l’essersi spaventati. Ci ritroviamo a contemplare quella primavera di tanti anni fa, che risorge in una canzone e ci lascia distanti, spaesati; trascinati da una dubbia e dolce malinconia. Ecco, il luogo dove ci baciammo, ecco, dove fummo innamorati, ecco, dove piangemmo oppure fuggimmo; ecco quell’alba che pensammo di vedere per sempre, invece fu tre volte, forse quattro. Ciò che ci consola misura inesorabilmente il nostro difetto. Questa ombra fredda di una felicità passata, delle gioie non sperimentate né riconosciute, le ultime piogge prima della primavera, un richiamo lontano. Come Alain ci siamo ingannati, come lui avremmo tanto voluto essere amati che abbiamo pensato di amare.

 

Andrea Tremaglia-L’intellettuale dissidente

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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