Le vite di Anna (2014) è un romanzo breve della scrittrice emergente Angela G. Di Maio e pone al centro la storia di Anna, articolata su più episodi, concentrandosi sul tema drammatico dell’anoressia, dell’autolesionismo, dell’abuso di farmaci. Ma il romanzo trasmette anche il desiderio di rivalsa, di rinascita, la volontà di gettarsi alle spalle un passato assai doloroso. Le vite di Anna presenta un’organizzazione narrativa frammentata in due parti: la prima è formata da 5 racconti, tutti aventi come protagonista una donna, Anna, per l’appunto, ed un uomo, sempre lo stesso ma in differenti contesti, la seconda invece consta di due capitoli più una lettera conclusiva.
L’elemento immancabile di ogni racconto è l’incontro, narrato in prima persona dalla protagonista. Nonostante possa sembrare si tratti di storie separate, prive di nessi, dal sesto capitolo si si svela tutt’altro, un dettaglio che fa luce sul legame sotterraneo tra le diverse vicende. Dal punto di vista stilistico è chiara la scelta dell’autrice di ironizzare talvolta su se stessa, sui difetti fisici, sulla sua androginia, sul fatto che, le altre sembrano perfette, mentre lei, Anna, sembra un maschiaccio. Ecco, l’ironia, nel corso dei vari racconti si inasprisce e diventa sempre più chiara, fino al momento in cui non sfocia nell’autoanalisi e nel sarcasmo. Durante il colloquio settimanale con lo psichiatra, Anna taglia corto nei suoi pensieri ed emette un giudizio netto, che sembra essere un assioma: “Il sarcasmo è una forma di difesa”. Il medico non dedica la dovuta attenzione alla paziente e Anna, già incline all’auto-accusa, risponde alla superficialità dell’analista schermandosi con distacco, con l’indifferenza amara, tipica di chi è indifeso.
Da quel momento il cervello inizia a studiare vie d’uscita per toglierti tutti quegli sguardi di dosso e, paradossalmente, la via migliore è acconsentire a una terapia “per uscirne fuori”. “Fuori” da che? Non fumo, non bevo, non uso droghe. Il problema è dentro me. Dovrei “uscire fuori” da me stessa, ma è quello che cerco di fare, solo a modo mio.
Anna è sola, il problema del “tutti mi guardano” è il vero nucleo della sua fragilità. Il fatto che la donna non riesca a controllare tutto o tutti, che sia così dannatamente intelligente e sensibile, molto più dei suoi coetanei, la obbliga a fare i conti con un’interiorità dilaniata, un vuoto sotto i piedi che le fa chiudere lo stomaco. Il non ingerire cibo è la punta dell’iceberg, l’evidenza drammatica di un vulcano di dimensioni gigantesche che la inghiotte e digerisce assenze, la mancanza d’affetto e di stima, tutte le frasi non dette dagli altri, poi inghiotte noi stessi. Difficile risalire da una voragine come quella dell’anoressia.
Anna sembra sempre camminare sola, eppure, ogni volta che cade, si ferisce, smette di credere, c’è lui ad aspettarla. Lui chi? Non è dato saperlo ma c’è sempre: in un giardino, fuori da una discoteca, sulle panchine dell’ospedale. Luoghi poco adatti ad un incontro galante, e infatti l’appuntamento di Anna non è con il lui in questione, ma con il destino che la travolge e l’abbraccia, salvandola sempre. Si cammina soli, forti o deboli, malinconici o felici, ma il destino attende. E l’amore, quell’amore che tutto trae e tutto salva, non abbandona mai gli esseri umani, sbagliati, imperfetti e giusti che siano. E Anna lo sa bene, così decide di scriverle, apparizioni di vita che affollano la sua mente. Di certo, la protagonista è una di noi: donna animata dal desiderio di essere libera ed ardente, come una magica falena.