Vivono all’interno di un mondo incantato, scandito dalle ore perenni di un tempo immobile, algide e imperturbabili, le creature del popolo dei Túatha Dé Danann, presente nella tradizione celtica, rappresentano il prototipo di elfo seguito prima da Lord Dunsany e in seguito dallo stesso Tolkien.
Come in ogni tradizione mitologica che si rispetti, i Danann, che raffigurano il principio positivo dell’origine della vita, possiedono la loro nemesi: i Firbolg e i Fomori, razze ottuse e dai valori morali decadenti e oscuri.
Leggenda e storia seguono confini sottili e si amalgamano nel racconto dell’arrivo di questo popolo, esperto in arti druidiche, presso i territori irlandesi. I Danann discendono dai Figli di Nemed, antichi invasori dell’Irlanda, costretti ad abbandonare l’isola dopo essere stati decimati dai Fomori.
In seguito alla sconfitta si rifugiano in Scandinavia, per poi riuscire a fare ritorno sul suolo irlandese e a imporre il proprio dominio per molti secoli.
Dal punto di vista del mythos, l’elfo, appartenente alla tradizione scandinava, è una figura ctonia, sotterranea, crepuscolare che spesso si relaziona nei confronti dell’uomo come un’ombra, una presenza inquietante. Vi sono infatti, molte fiabe scandinave che testimoniano come agli elfi piaccia scambiare i bambini umani con i propri, o altre ancora che narrano di tremende maledizioni o impareggiabili doni.
E’ innegabile che la letteratura sia sempre stata affascinata da questo universo fatato, si pensi a Sogno di una Notte di Mezza Estate di W. Shakespeare, nitida dimostrazione del legame indissolubile tra l’umano e il divino. Tuttavia all’inizio del ventesimo secolo comincia una lenta e inesorabile separazione tra il mondo terreno e quello dei Faerie. Quest’ultimo comincia a essere considerato dalla produzione letteraria come un regno “altro”, avulso da una dimensione iper – incantata e iper – distante. Le ragioni di tale allontanamento sono chiare: il reame fatato si configura come un rifugio per l’uomo moderno dalla caotica e stridente era industriale. Gli elfi vivono in armonia con la natura, a dispetto dell’essere umano che, a causa della tecnologia, si è alienato da essa. Questo modo di intendere tali spazi alla stregua di realtà allegoriche in cui trovare riparo da un sistema sociale squallido e annichilente, costituirà un principio fondante, seguito da diversi autori fantasy contemporanei, come ad esempio Ursula K. Le Guinn, che con il romanzo La Soglia (1980), rievoca e celebra la riscoperta da parte dell’uomo di tali luoghi incontaminati.
Dunsany, quindi, recupera il mito dei Danann celtici, e attraverso di esso Tolkien plasmerà quella creatura immobile e cristallizzata tanto nota nel fantasy moderno: l’elfo.
Da Lord Dunsany in poi la terra degli elfi rappresenterà non solo la bellezza assoluta, ma anche la debole capacità degli esseri umani nel percepirla, quell’attimo talmente perfetto ma fugace che alla fine si finisce con il dubitare di esso e della sua stessa esistenza.
L’elfland possiede un tempo immobile, raffigura il perenne passaggio tra la notte e il giorno, ed è lì che si cristallizza, si trasforma in un momento inesauribile. Questa dimensione del tempo deriva dalle tradizioni del nord Europa, nelle quali una notte nel mondo dei Faerie equivale a cent’anni del tempo mortale.
Da Dunsany in poi, tale considerazione declinerà in una doppia osservazione da parte della letteratura nell’affrontare questo universo: se da un lato la terra degli elfi è un mundus immoto in cui il bello è eterno e la natura incontaminata, dall’altro la stessa natura guarda con superiorità e distacco le vicende e le tribolazioni degli uomini; le emozioni delle creature che popolano tale regno non evolvono e il libero arbitrio si congela.
Il tempo degli elfi è il tempo degli alberi e della roccia, che osserva con pacato distacco l’illusoria arroganza della razza umana, che pensa di essere sovrana vanesia e immortale di un mondo caduco ed effimero.
L’impegno della produzione letteraria fantasy di cogliere e illustrare un magico luogo dove l’indefinito è perenne, ha generato la figura dell’elfo come la conosciamo oggi, e cioè quella creatura a ridosso dell’umana esperienza, che vive in un gelo emotivo in cui le passioni non fluiscono, ma rimangono immobili.