Breaking News
Home / Focus letteratura / Mistero e irrealismo in Buzzati
Dino Buzzati
Dino Buzzati e il mistero

Mistero e irrealismo in Buzzati

Il grande ritratto di Dino Buzzati trasporta il lettore, dietro la vicenda di colui che si pensa essere il protagonista (ma non lo è in quanto è difficile che nella narrativa di Dino Buzzati esista un protagonista-uomo o donna, essendo la sua umanità sempre vittima di qualcosa di molto più grande di essa), in una sorta di “sopramondo”, a metà tra fantascienza e un mondo sui generis, le cui dimensioni, da umane si trasformano e deformano, assumono proporzioni irreali, diventano incubo, ossessione e a volte pazzia. Come nel protagonista del Grande ritratto, Endriade, il capo di un elitario staff di scienziati a cui ordini è stato costruito in una località remota dalla consueta vita umana, una specie di laboratorio sul quale esiste il più fitto dei misteri.

Mistero e psicologia in Dino Buzzati

Questa presenza del mistero, anche nella vita quotidiana, è un tema caro a Buzzati e da lui sfruttato a volte in modo geniale, altre solo abilmente. Geniale nel Deserto dei Tartari, in alcune sue novelle, ne I Sette Messaggeri in particolare come ne I sessanta racconti; abile in Paura alla Scala e ne Il crollo della Baliverna. La graduale suggestione della misteriosità eccezionale della cosa è affidata nel Grande ritratto, alla perplessità, alle paure e alla curiosità del modesto scienziato Ismani, argutamente controbilanciato dalla sicurezza della moglie, al quale viene dato il misterioso incarico di raggiungere quella remota località, di cui non sa assolutamente nulla. Si tratta di un incarico di un organo segreto del ministero della guerra; cosa che fa supporre al lettore che si stia affrontando argomenti militari. Ismani parte con la moglie, è preso in consegna da guide riservatissime e portato dove era stato destinato. Le non poche pagine, ma di scarno dialogo, di rapide descrizioni sia del paesaggio che delle inquietudini del pavido scienziato, sono probabilmente le più suggestive perché significano una condizione psicologica, frequente nella fantasia o almeno nell’immaginazione di Dino Buzzati. In quel luogo Ismani conosce un paio di colleghi, le loro mogli (molto bello il ritratto di olga Strobele):

<<abitano in ville contigue, ai margini di una valle, dove sprofonda il laboratorio. “Dinanzi a loro (i coniugi Ismani e Olga) sprofondava un botro, un vallone senza sbocchi, un ripidissimo cratere che si prolungava tortuoso a perdita d’occhio. Dal fondo le pareti erano interamente ricoperte di strane costruzioni, come scatole, attaccate l’una all’altra, che formavano una babelica successione di terrazze accompagnando le sporgenze e le rientranze delle rupi. Ma le rupi non c’erano più, né si vedeva vegetazione […]. Tutto era invaso da un accavallamento di edifici simili a silos, torri, mastabe, muraglioni, esili ponti, barbacani, caselli, casematte, bastioni, che si inabissavano in vertiginose geometrie. Come una città si fosse abbattuta sui fianchi di un burrone. Ma c’era un elemento esageratamente anormale che dava a quelle architetture qualcosa di enigmatico. Non esistevano finestre. Tutto appariva ermeticamente chiuso o cieco […]. Non si vedeva anima viva. Eppure l’allucinante bolgia non esprimeva la morte o l’abbandono. Anzi, si percepiva sotto l’involucro, una vita arcana che stesse fermentando. Perché? Forse per il brulichio delle antenne metalliche, dalla più bizzarre forme, che spuntavano dai ciglioni sommitali? Forse per il confuso coro di sommessi ronzii, risonanze, sussurri, lontani scrosci e tonfi, che lievitava sopra la dirupata cittadella, e andava e veniva a lente ondate […]>>

Basterebbe solo questo passo per mostrare la qualità forse maggiore della fantasia di Buzzati, che affronta il teratologico come se si trattasse della descrizione di un paesaggio naturale, ma quello che accade là dentro probabilmente lo sa solo Endriade e lo spiegherà alla moglie di Ismani, che poi verrà inghiottita come un fuscello da quel novello minotauro: Che se noi qui si riesce-dice Endriade al collega Strobele, diventiamo i padroni del mondo! E invece non è vero nulla. Endriade ha costruito questo monstrum per due scopi opposti: creare la macchina del pensiero, la cellula della personalità, l’intima essenza della creatura, e la macchina si chiama Numero 1, e sia per resuscitare la vita di una giovane donna morte, la moglie infida di Endriade, Lauretta, di cui l’uomo sente ancora la voce e persino la presenza fisica.

I due elementi fantastici del racconto non fanno unità perché sono intimamente estranei, e il racconto smette di essere persuasivo in ogni sua parte, aspetto che rappresenta il difetto del romanzo di Buzzati, sebbene non manchino pagine molto belle.

Gi Titta Rosa: Vita letteraria del Novecento, V.III.

About Annalina Grasso

Giornalista e blogger campana, 29 anni. Laurea in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con una galleria d'arte contemporanea.

Check Also

Joyce-Svevo

James Joyce e Italo Svevo. Dello scrivere di sé

Si ricordi di me se in qualsiasi momento il mio aiuto potrà servire a mantenere vivo il ricordo di un mio vecchio amico per il quale ho sempre nutrito affetto e stima. A lei, cara Signora Schmitz, e a Sua figlia tutta la nostra solidarietà. Sono le ultime righe della lettera di James Joyce del 24 settembre 1928 spedita a Livia Veneziani, rimasta vedova dopo che, undici giorni prima, Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, era deceduto a seguito delle complicazioni di un incidente stradale a Motta di Livenza, in provincia di Treviso.