Nei loro romanzi Thomas Pynchon e Don DeLillo descrivono soprattutto il paesaggio storico-culturale che si è profilato all’orizzonte a partire dal secondo dopoguerra. Una realtà, questa, per la quale gli studiosi adottano il termine “postmoderno”, e che Fredric Jameson legge come un prodotto della logica culturale del capitalismo avanzato. Il critico statunitense, infatti, vede il paesaggio storico, economico e culturale della postmodernità completamente dominato dal mercato.
Nei romanzi di Pynchon e DeLillo, lo spazio viene eletto a osservatorio privilegiato della postmodernità. Al contrario della spoglia (in senso culturale) wilderness che incontrarono i Pilgrim Fathers, questo spazio postmoderno si configura come già del tutto ‘testualizzato’, una foresta di segni talmente fitta da impedire, paradossalmente, ogni autentica comunicazione. Le opere di entrambi gli autori descrivono la nuova entropia prodotta dalla sovrabbondanza di immagini, codici ed istituzioni burocratiche che ricoprono lo spazio postmoderno trasformandolo in una linguistic wilderness.
Un paesaggio dominato dal mercato, però, mal si concilia con la concezione mitico-simbolica dello spazio americano come luogo di salvezza e di autoaffermazione. Un’idea che, come ben rileva Alan Bilton, non ha mai abbandonato gli scrittori americani: «The wilderness has always functioned in American literature as a trope of possibility or salvation, liberation from a corrupt and mercantile civilisation; even with nature tamed and the wilderness crisscrossed by freeways and shoppingmalls, this motif still doesn’t finished with».
Forse è questo motivo a spingerli sovente verso la creazione di controspazi finzionali capaci di contrastare, almeno sul piano simbolico, la logica omologante del paesaggio postmoderno. Questo perché, «with the closing of the frontier, and the effective absorption of the wilderness space by civilization, American writers were forced to restructure imaginatively their country». In mancanza ormai di uno spazio geografico e psichico che non sia già stato cooptato dal mercato globale, uno scrittore è costretto a ritagliarsi «some kind of fictive (rather than literal) space uncontaminated by the dominant logic of endless replication», quasi un «redemptive space» in cui rifugiarsi lontano dal Sistema, come Pynchon battezza il complesso militare-industriale in Gravity’s Rainbow.
Egli stesso reagisce attraverso la fabulazione e l’invenzione romanzesca, costruendo contro-spazi e contro narrazioni dove trionfano il sogno, il favolistico, il miracoloso, l’improbabile, e dove i parametri scientifici basati sul determinismo e la logica causale vengono contraddetti. Questi luoghi rappresentano non già una consolatoria fuga dalla realtà né, come talvolta sostengono i detrattori della narrativa postmoderna, uno sterile ripiegamento nichilista, quanto piuttosto un antidoto creativo contro la piattezza del paesaggio culturale partorito dal tardo capitalismo.
A costituire il principale oggetto dell’analisi critica non sono tanto i tratti costitutivi dello spazio postmoderno quanto le strategie narrative attuate per descriverlo. Né va dimenticato che nel romanzo postmoderno lo spazio del paesaggio reale e quello della finzione rivelano un inedito rapporto di interdipendenza, rispecchiandosi l’uno nell’altro. Gli spazi, cioè, vengono costruiti sul piano retorico da una scrittura che ne riflette i contorni, ovvero ne mima le aporie, proponendosi come il loro corrispettivo retorico-narrativo. Tuttavia, è sempre attraverso la rappresentazione dello spazio che Pynchon e DeLillo pongono in essere un lucido progetto di critica alla storia nazionale e alla società americana contemporanea.
Nelle sue opere Thomas Pynchon rappresenta la postmodernità soprattutto come un eccesso di segni, scorgendone addirittura le prime tracce nel periodo appena precedente la Dichiarazione d’Indipendenza americana. Una tesi, questa, che l’autore sembra voler dimostrare nel penultimo romanzo, Mason & Dixon (1997), dove si narra delle spedizioni condotte da due scienziati inglesi per conto della Corona. La «wilderness of uncertainty» che gli astronomi e cartografi Mason e Dixon, nelle scomode vesti di «agents of Reason», affrontano spingendosi verso Ovest nell’America degli anni Sessanta del Settecento, armati di bussola e di fede nella scienza diviene, attraverso la sua rilettura, un territorio al tempo stesso geografico e concettuale. Nel periodo coloniale in cui è ambientata l’opera, tale wilderness si configura ancora come uno spazio culturalmente vuoto, «a region without a map», di cui la civiltà si appropria riempiendolo di segni culturali, sovrascrivendoli a quelli già presenti sul paesaggio naturale, allo scopo di esercitare un controllo tanto fisico quanto simbolico sul territorio.
Ma se dapprima il luogo incarna una moderna utopia, uno spazio geografico e psichico nel quale cominciare una nuova vita, il narratore ci rende immediatamente avvertiti di come già siano attive le forze storiche che convertiranno il cronotopo della strada aperta in quello borgesiano del labirinto. Infatti, come ci ricorda Tony Tanner, è proprio durante gli anni precedenti la Rivoluzione americana che «the fences were going up, and the straight road to the west gradually obliterating the ‘chances of diversity’ has begun». Ecco perché, a suo dire, Mason & Dixon rappresenta «a celebration of America as a last realm of the Subjunctive, and an elegiac lament for the accelerating erosion of that subjunctivity». Insomma, già nella linea divisoria che gli astronomi Mason e Dixon tracciano tra il Maryland e la Pennsylvania nel periodo che precede di poco la Dichiarazione d’Indipendenza, Pynchon vede i prodromi di ciò che sarebbe diventato due secoli più tardi il paesaggio americano: uno spazio apparentemente aperto e polifonico, ma in realtà governato da un mercato che rappresenta il discorso dominante.
Fonte: http://www.fedoa.unina.it/1753/1/Paravizzini_Filologia_Moderna.pdf