Nato a Milano nel 1885, Clemente Rebora abbandona gli studi di medicina per quelli letterari. Grazie alla laurea in lettere insegna in diverse scuole, sia pubbliche che private.

Contemporaneamente collabora con la rivista <<la Voce>> sulla quale pubblica nel 1913 la raccolta “Frammenti lirici” , e alcuni articoli riguardanti il problema dell’educazione dei ragazzi di ceti più umili, e altri invece rivolti ai suoi amici letterati, ai quali rimprovera un eccessivo intellettualismo, indicando la necessità di un avvicinamento ai problemi reali e alla quotidianità.
Partecipa alla prima guerra mondiale, fino all’esplosione di una bomba che gli provoca uno shock nervoso per il quale è congedato.
Nel 1919 abbandona l’insegnamento istituzionale, per insegnare nelle scuole serali dei quartieri più poveri della città: fu la sua prima scelta vocazionale. Da quel momento Rebora si dedica alla carità, aiutando i barboni e le persone bisognose del quartiere in cui vive.
Pur non avendo un’educazione religiosa, i suoi continui interrogativi, che vanno dalla fiducia nell’opera dell’uomo al disgusto per il mondo, lo portano, ben preso, alla conversione, diventando sacerdote. Approdando così alla fede, egli riesce a trovare una via d’uscita ai suoi quesiti.
Clemente Rebora nutre una visione pessimistica della vita, scaturita dal comportamento degli uomini e dalla volontà di una classe intellettuale volta a propagandare dottrine, principi egoistici e immorali, capaci poi di allontanare la gente comune dalla morale cristiana.
La corruzione umana pertanto si esprime soprattutto nella città, <<affollata solitudine>>, sentita, in opposizione alla sana campagna. In Rebora la città non è un luogo del mito, ma del contemporaneo e della civiltà delle macchine. La reazione del poeta non è il recupero del mito, o di paradisi perduti simbolisti, ma si traduce in un’aggressione sarcastica nei confronti del mondo e una riflessione morale, sulla certezza di un trionfo finale della bontà. Per questo motivo la reazione di Clemente Rebora non fu quella di un isolamento, di un ripiegamento in se stesso, o di una rinuncia al colloquio con il mondo, bensì quella di una volontà d’intervento e di testimonianza della possibile via al bene.
Nell’ambito dei poeti vociani, Clemente Rebora rappresenta l’espressione più alta di quella tendenza espressionistica che, assieme a una forte coscienza morale, arriva alla concezione della poesia come manifestazione di un impegno esistenziale.

Le scelte formali del poeta milanese sono forti e violente e colpiscono il lettore: il lessico è originale e selezionato in base alla durezza fonica, gli enjambement creano rotture brusche così come l’alternanza di versi brevi e lunghi. Le sue scelte sono riconducibili alla tradizione lombarda (da Dossi a Gadda) e a Dante dal quale riprende l’ansia religiosa di assoluto. Egli più di tutti ha trasformato in poesia esistenzialità e moralità, rappresentando il caos dell’esistenza nella sua contraddizione, cercando di riportare nella realtà ordine e razionalità.
Il poeta si sforza di attribuire ai suoi testi un significato proprio, tendendo all’allegoria: gli oggetti del mondo non hanno più valore in se stessi come per il simbolismo, ma sta al soggetto assegnarglielo. Per questo si può parlare del poetare di Rebora come di un ” atletismo agonistico”, cioè una sfida solitaria nell’affrontare la vita cercando di darle un ordine e un significato.
E in rapporto a se stesso la poesia è un mezzo di salvazione.
Ci sono forti richiami al concetto di “corrispondenza” tipico dei poeti decadenti che, però, non è più la volontà di mettere in relazione le cose, gli oggetti, bensì l’umano e il divino.
Per intendere meglio il pensiero poetico di Rebora può venire utile un passo di una sua lettera ricordato da Mengaldo: << Vorrei giovare ed elevare tutto e tutti, smarrirmi come persona per rivivere nel meglio e nel desiderio di ciascuno; esser un dio che non si vede perché è negli occhi medesimi di chi contempla, essere un’energia che non si avverte perché è nel divenire stesso d’ogni cosa che esiste, perché si crea in ogni attimo>>. Questo passo è utile per illustrare una generale tendenza della poesia reboriana, in altre parole l’oggettivazione, l’annullamento quasi, dell’io nella realtà esterna. Egli abbatte i confini tra l’io interno e realtà esterna, rappresenta l’uno e l’altra quasi fossero fusi. Proietta l’io nella realtà esterna.
I “Frammenti lirici” costituiscono la sua prima opera. Usciti nel 1913, sono costituiti da 72 liriche, che contengono numerose descrizioni paesaggistiche, ricordi della sua famiglia, figure femminili, interrogativi sull’esistenza dell’uomo, ed elementi di poetica. Scritti in pieno clima vociano, ci riconducono alla poetica del frammentismo. Essi sono la grande avventura di un giovane che vuole misurarsi con il mondo degli affetti, delle idee, delle parole e dei suoni. Egli fonde tutti questi aspetti per esprimere una verità percepibile ma non sempre rivelabile. Ciò è rinvenibile sin dal primo frammento: <<Qui nasce, qui muore il mio canto: / E parrà forse vano / Accordo solitario; / Ma tu che ascolti, rècalo / Al tuo bene e al tuo male: / E non ti sarà oscuro>>.
È bene specificare che la caratteristica principale delle descrizioni paesaggistiche di Rebora, è quella di essere umanizzate, senza che però avvenga una vera metamorfosi in stile dannunziano. Leggiamo da Frammenti lirici:
E quasi sento un caldo alito umano / sul viso e dietro il collo un far di baci / e tra’ capelli morbida la mano / d’amante donna in carezze fugaci
Qui, dunque, il poeta si sente immerso nella natura che lo accarezza e lo bacia come un’amante farebbe con il suo amato.
Altro elemento tipico dei “Frammenti lirici” è la figura della madre, ritratta come colei <<che nel donare il sangue fu serena>>, protettrice nei confronti dei figli, amorevole e paziente; nei confronti di tale donna il poeta non poté che scrivere parole di ringraziamento.
I “Canti anonimi” del 1920, scritti dopo l’esperienza della prima guerra mondiale, costituiscono una denuncia a tutti gli orrori della guerra, con la volontà di opporsi alle posizioni dei futuristi e di tutti i guerrafondai. La guerra non poteva che rappresentare una conferma della prevalenza cieca del dolore e della morte. Il poeta, comunque, ci mostra la speranza della bontà dell’uomo, verso un’azione di fede nel mondo, come testimonianza e pegno di assoluzione. Anche in questa raccolta emerge la figura del poeta, desideroso di giovare agli altri. Egli osserva lo spettacolo della vita messo in scena da individui chiusi nelle loro solitudini e nei loro egoismi.
Il tema delle illusioni è affiancato da un sentimento nostalgico della campagna che, certamente sincero, mostra la via della salvezza.

La caratterizza principale di questa raccolta è una certa tendenza all’allegoria e al simbolismo, che creano con costanti richiami la speranza nei confronti del bene.
I “Canti dell’infermità”del 1947, come già il titolo dice, appartengono al periodo della malattia del poeta, la quale ne costituisce poi il tema principale. Clemente Rebora accetta serenamente il disfarsi del suo corpo, e dal suo soffrire nasce uno slancio mistico, di desiderio e congiunzione con Dio. È il periodo più importante per il poeta, che ci mostra l’immagine del poeta come di un’ape, e della poesia come miele, che il poeta produce e distribuisce ai suoi fratelli. Il poetare è diventato ormai un modo concreto di amare Dio e i fratelli. È in questa raccolta che esprime per la prima volta l’essenza della poesia cattolica, rimodellando il concetto simbolista dei richiami e delle concordanze, ora possibili tra cielo e terra. Ovviamente non manca in questa raccolta il tema della morta sentita cristianamente, come passaggio e ingresso a una nuova vita.
La raccolta intitolata “Curriculum vitae”del 1955 è ormai poesia della memoria che nasce dalla riconsiderazione di tutta la sua vita. Clemente Rebora rivive idealmente le stagioni della sua vita e in ognuna scopre un evento, un segno del suo destino sacerdotale. Tutto, gli appare come un disegno già scritto, verso il momento cruciale della vocazione e della scelta sacerdotale. La visione di un mondo crudele e nefando, trova consolazione nell’idea che la poesia sia stata la strada per la salvezza. E, infine, la parte conclusiva è dedicata alla vocazione che per sempre ha cambiato la sua vita.