Cinema Letteratura e Diritto: appuntamenti alla Suor Orsola Benincasa

Dal 25 Ottobre al 16 dicembre all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa presso la Facoltà di Giurisprudenza si sta svolgendo la manifestazione Cinema Letteratura e Diritto Da Processo alla città ad Anime Nere. Per questa undicesima edizione la sezione cinematografica è dedicata alle rappresentazioni delle diverse forme della criminalità italiana.

Ci saranno anche tre appuntamenti speciali con il fumetto e le parodie letterarie. La rassegna, in collaborazione con l’Archivio di Iconologia politica del CRIE e il Centro di Ricerca sulle Istituzioni Europee dell’Ateneo napoletano, si svolgerà con un appuntamento settimanale pomeridiano fino al 16 Dicembre. L’appuntamento conclusivo, la proiezione del film di Francesco Munzi Anime Nere, vedrà la presenza di un ospite di eccezione, il procuratore generale della repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho.

“Il filo conduttore della sezione cinematografica di questa undicesima edizione – anticipa Gennaro Carillo, professore ordinario di Storia del pensiero politico e filosofico, – è un viaggio, nello spazio e nel tempo, nel Male italiano, nel crimine e nelle sue molteplici rappresentazioni” e aggiunge: “Del diritto non parlano soltanto i giuristi, i sacerdoti depositari dei suoi molti misteri. Lo scarto tra il linguaggio giuridico e quello comune non ha mai impedito ai profani di rappresentarsi il diritto, di immaginarselo. Molte figure giuridiche sono da sempre una grande risorsa narrativa”. Questa dunque l’idea dalla quale è nato il progetto della rassegna di Cinema Letteratura e Diritto.

Questa undicesima edizione ha avuto inizio, dopo un’anteprima dedicata al romanzo di Bruno Cavallone La borsa di Miss Flite. Storie e immagini del processo, con la proiezione dell’ultimo film di Claudio Caligari  Non essere cattivo, candidato italiano agli Oscar 2016 come miglior film straniero.
Il 15 Novembre si prosegue con la proiezione di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. Seguirà poi la proiezione di Processo alla città di Luigi Zampa per far riscoprire, soprattutto ai più giovani, un grande classico del cinema italiano. Ogni proiezione sarà ovviamente introdotta da una presentazione affidata a un giurista o a un critico cinematografico. Tra gli altri protagonisti ci saranno i magistrati Alfredo Guardiano, Vincenzo Piscitelli e Federico Cafiero De Raho, lo storico Isaia Sales e l’ex consigliere del CSM Giorgio Spangher.

Anche quest’anno alle visioni cinematografiche si affiancheràla rflessione sul fumetto, come voce suggestiva dei rapporti tra diritto e rappresentazioni artistiche. L’amministrativista Daniele Donati e il sociologo Sergio Brancato prenderanno spunto dalla celebre serie di fumetti Watchmen scritta da Alan Moore e disegnata da Dave Gibbons nel 1986.

Novità di quest’anno saranno l’appuntamento letterario dedicato alla parodia con l’intervento di Costanza Geddes Da Filicaia, docente di Letteratura Italiana all’Università di Macerata e un appuntamento dedicato al rapporto tra diritto e memoria storica con l’intervento di Bendetta Tobagi dedicato alla stagione delle stragi che hanno insanguinato l’Italia. L’iniziativa è assolutamente originale nel panorama accademico italiano; il Preside della Facoltà di Giurisprudenza del Suor Orsola, Aldo Sandulli lavora proprio per integrare la didattica ordinaria e per consentire agli studenti di ampliare il bagaglio culturale di ognuno. Per citare ancora Gennaro Carillo bisogna “insegnare il diritto agli studenti, discutere di diritto con la comunità dei giuristi non solo con il codice alla mano ma anche attraverso le immagini e le suggestioni del cinema e della letteratura”.

 

Napoli: ‘le stazioni d’arte’ di Francesco Ferone

Napoli, tra le città più belle e probabilmente tra le più afflitte da stupidi stereotipi al mondo, è l’oggetto della arte del talentuoso fotografo Francesco Ferone, che con il suo lavoro sulle stazioni d’arte partenopee, mette in evidenza l’interazione che si crea tra i viaggiatori delle metropolitane e le rappresentazioni artistiche al loro interno, mostrando come questo rapporto contribuisca ad aggiungere valore alle opere stesse, creando qualcosa di unico.

Il giovane Francesco Ferone si rivolge principalmente a quanti capita quotidianamente di usare mezzi di trasporto quali le metropolitane che in una città caotica come Napoli, si rivelano spesso la scelta migliore; e ci invita a scrutare, abbandonando la fretta l’immenso patrimonio artistico che è nascosto in quei luoghi che tutti i giorni percorriamo. Ferone ci offre una città dinamica, che è sempre altro rispetto agli insopportabili luoghi comuni, una metropoli i cui abitanti, come diceva Pasolini, “sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg e i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso –in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte –di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. È un rifiuto sorto dal cuore della collettività contro cui non c’è niente da fare”. L’artista napoletano inoltre, non ci risparmia l’aspetto umano, interiore, invitandoci a guadare dentro noi stessi, a metterci a nudo, a scattare una foto della nostra anima, per poi analizzarla.

Di seguito le fotografie rappresentative del progetto di Francesco Ferone:

“Doppio”

 

In questo scatto assistiamo alla ripetizione del pattern scelto dall’artista che va a richiamare lo sdoppiamento delle figure che scendendo le scale ed i loro riflessi creano appunto un ‘doppio’.

“Doppio 2”

Sempre nella stazione Università come la prima Fotografia, il tema e il concetto sono gli stessi, soltanto la doppia visione è qui legata alla singola figura in movimento che riflette sulla parete, stile che si avvicina alla visione ‘futurista’ della metro.

“Una separazione”

Quest’opera è presente nella stazione Toledo di Napoli e si intitola : Il teatro è vita. La vita è teatro (nome abbreviato). Si tratta di installazioni fotografiche scelte dall’artista Shirin Neshat, mentre gli scatti sono di Luciano Romano, le tematiche spaziano dal sentimento della perdita  e la separazione e la finzione tra teatro e vita. L’uomo ritratto stabilisce un rapporto di ‘separazione’ con la donna ritratta, dove la perdita materiale della propria testa, la parte del corpo deputata ai sentimenti, nella quale insiti, contrastano l’irrazionalità e la razionalità, simboleggia proprio questo. Il volto della donna avvolto dalla disperazione,crea un’ingombrante presenza all’interno dell’immagine diventando soggetto della Foto e in un certo senso volto dell’uomo. Si mescola in questo scenario il rapporto tra realtà e fantasia: le persone ritratte sui fondali sono attori,un po’ come l’uomo di passaggio che in un giorno della sua vita ha deciso di recitare il suo atto nel teatro di questa città.

Una separazione è il titolo dell’opera non soltanto per il contenuto dell’immagine ma è anche un omaggio alla cultura Iraniana, nazione d’origine dell’artista attraverso l’ammiccamento al film ‘Una separazione’ di Asghar Farhadi, che per altro tratta tematiche correlate.

“Bruciate dal fuoco”

In questo scatto la statua in basso è un omaggio alle donne della resistenza, sotto (anche se non si vede) è presente la frase palindroma ‘In girum imus nocte et consumimur igni’; è un’omaggio all’instancabile e ancestrale figura della donna e alla sua centralità nella società, intesta come madre, archetipo di ogni epoca, che le rende per l’appunto ‘bruciate’ dal fuoco della passione e della vita.

“Passaggio”

Il tema di questa fotografia (stazione Dante) è la metafora del Viaggio, inteso come quello fisico, terreno che si va ad intrecciare con quello del pendolare, i colori forti del bambino contrastano con quelli dell’opera di Kounellis, invecchiati; la volatilità della vita: Nascita e morte, giovinezza e vecchiaia.

“Sguardi 2”

Quest’opera è presente nella stazione di Rione Alto, ed ha come tematica la stessa della prima serie (Sguardi 1): l’invito a guardarsi dentro, anche attraverso gli altri, soltanto qua l’uomo è più attento a quello che gli succede intorno, “Conosci te stesso”.

“Sequenza”

Questa istallazione è situazione all’interno della stazione Vanvitelli, rappresenta la serie di Fibonacci, la successione numerica per cui ogni cifra è la somma delle due precedenti è per l’artista la sintesi dei processi di crescita organica del mondo e le figure in movimento richiamano la successione numerica, che insieme  determinano una crescita, in una visione comunitaria.

 

 

 

Gaetano Profenna: ‘Senza maschera’, un complesso viaggio emotivo

Gaetano Profenna nasce a Napoli il 30 gennaio 1966. È responsabile nel settore della ristorazione presso un noto ristorante al Vomero, Napoli. La sua prima raccolta Senza maschera, pubblicata per il gruppo Albratros il filo, è un complesso viaggio emotivo tra le pieghe dolorose del suo cuore. Egli utilizza la poesia come arma contro le ingiustizie sociali, il dolore e la miseria umana. I suoi versi richiamano un mondo musicato tipicamente napoletano e rispettano a pieno le tradizioni e il folklore di un popolo a cui restituisce dignità.

La raccolta non rispetta l’ordine cronologico di composizione: si apre con una poesia del ’98 A’ maschera, che si pone come chiave di lettura di tutta la raccolta, attraversando un arco temporale che va dal 1993 al 2013. La presenza della maschera nel titolo crea un gioco di doppi e di rimandi costanti con la prima poesia della raccolta, manifesto della sua poetica. Con un forte gioco di contrapposizione legato alla presenza e all’assenza della maschera, Profenna (mutuando l’altisonante denominazione da Salvatore Bova) vuole denudarsi, liberarsi dalle oppressioni dei ricordi dolorosi, dalle ingiustizie della vita, cercando una soluzione nelle profetiche e divine risposte dell’amore.

L’autore alterna versi in italiano e napoletano, dimostrando di onorare la terra da cui proviene. È proprio l’utilizzo della lingua napoletana che dà il via libera, fa scrivere senza filtro (come direbbe l’autore senza maschera), ma solo con la voce dell’anima. Un’eco che non si dissolve nel tempo moderno malato di distrazione, ma resterà per sempre padrone dei suoi ricordi e dell’amore. Di questo si parla, dell’amore come motrice dirompente che spezza gli inganni del nostro tempo.

Il leitmotiv amoroso crea un filo rosso che in punta di piedi passa nella cruna dell’ago, ridestando i ricordi per una madre ormai scomparsa. Il dolore è una costante che sfiora ora con violenza le strade di Napoli con la poesia Napule:

Napule cara… napule mia/ che tristezze pè stì vvie/ Si turnasse Masaniello, e guardasse stà città/ addò mettess’e mmane po’ mmale ca cè stà? […] Napule cara… Napule mia… Adderizzele stì vvie […] Napule cara… Napule bella… Turnammo à cantà à tarantella!

Ora si ricongiunge al ricordo di una madre addolorata, per un figlio che invoca il suo perdono:

Ho visto quello che ogni uomo/ non vorrebbe mai vedere/ ho visto piangere una madre […] piangi ancora dolce madre ma/ Perdona chi ha colpito/ perché tu fosti perdonata/ Da chi al silenzio e al dolore/ La morte ha preferito! (Da Dolce madre)

Profenna non mette in scena solo esperienze personali, ma è in grado di oggettivarle, creando un collegamento tra testi con rimandi spesso molto forti. Da Madre natura leggiamo:

Nun à facimme murì, essa nun cè hà fatto/ niente, anzi… ce ha dat’à vita, e nun è poco.

Dolce madre e Madre natura sono indiscutibilmente collegate dalla volontà di esprimere, attraverso i dolorosi ricordi, l’universalizzazione del concetto madre ed elevarla a una visione eterea (perché impressa nella memoria) e ultraterrena, ovvero cristallizzata in un tempo eterno, ma che sia anche emblema dell’universalizzazione del dolore.

Erri De Luca: ‘Il giorno prima della felicità’, un melò poco riuscito

Romanzo dai buoni sentimenti, Il Giorno prima della Felicità (2009) dello scrittore partenopeo Erri De Luca, non riserva molte sorprese e colpi di scena. Sin dalle prime pagine si intuisce che tutto finirà bene, qualsiasi evento coinvolga il protagonista.

La trama de Il Giorno prima della Felicità richiama uno dei tanti film ambientati nei quartieri poveri di Napoli, qui il giovane eroe, una sorta di David Copperfield partenopeo, orfano e abbandonato a se stesso può confidare sulle premure di un portinaio dal cuore d’oro che lo alleva come fosse suo figlio. Il bambino scopre nel cortile del palazzo in cui vive un rifugio segreto, utilizzato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Così al racconto si uniscono i ricordi sull’occupazione tedesca, una storia nella storia, espediente abusato ma sempre di indubbio effetto sul lettore. Il portinaio si fa a sua volta narratore e racconta le atrocità determinate dalla miseria. Ma siamo in un romanzo dai buoni sentimenti, pertanto immancabile è l’amicizia con un ebreo che egli ha protetto.

Nel lavoro di De Luca è possibile individuare ogni “furbata” che si sa per certo è in grado di coinvolgere il lettore e permette alla trama di non subire cadute di tensione emotiva. Il passato evocato dal portinaio si intreccia al presente del protagonista e l’atto del narrare pone l’accento sulla magia della parola sia essa scritta o orale. La disamina metaletteraria scivola però nel didascalico moraleggiante.

A coronare questa fiera delle banalità è l’amore, inevitabilmente travagliato e ancora una volta ricalcato su qualche figura romanzesca di brontiana memoria oltre che la  fastidiosa tenacia di volere a tutti i costi trovare e far trovare al lettore somiglianze con lo spirito della cultura ebraica, ed ecco che spunta il perseguitato che vive nell’oscurità delle cantine.

Pagina dopo pagina il lettore accompagna il protagonista dall’infanzia alla maturità e si abbandona alle parentesi introdotte dall’autore con arguzia. Infatti nulla è casuale e come nei romanzi di formazione che si rispettino il finale aperto è il suggello sulle “grandi speranze” riposte nel giovane scugnizzo.

De Luca evoca con perizia ed empatia la vita nei quartieri, la loro miseria e affonda la penna nella realtà. Tuttavia l’epilogo sbrigativo si colloca più nella dimensione televisiva e rovina la patina neorealista. È innegabile che l’autore sappia raccontare una storia con padronanza ma gli stereotipi sono notevoli e a volte non è ben chiaro il suo intento, ovvero se voglia raccontare la storia di un bambino o celebrare il proprio amore per la scrittura e i libri. In quest’ultimo frangente si evince un trasporto maggiore, una spinta emotiva che a tratti l’autore non riesce a controllare e a trattare con sufficiente distacco. Di conseguenza la dimensione narrativa e quella metaletteraria non si saldano ma restano su due livelli sbilanciati e distinti. Si cerca invano di replicare l’inarrivabile e poetico universo letterario di Eduardo De Filippo, come dimostrano la presenza dei ciabattini macchietta, dei portinai che insegnano a vivere, sciorinando pillole di saggezza, e di don Gaetano, vero protagonista della storia che sa leggere nei pensieri della gente e che alleva il bambino.

Il giorno prima della felicità risulta un melò non tra i migliori di De Luca, con un finale frettoloso, dove l’autore partenopeo ha messo troppa carne al fuoco, in cui si rintracciano calchi letterari, cinematografici e televisivi, ma con un intento tutt’altro che piacevole e originale, dettato da esigenze più che altro commerciali, un filone nel quale il lavoro di De Luca si inserisce a pieno titolo.

A Polla nasce “Il Libro sospeso”

Dopo l’apertura della libreria ad azionariato popolare “Io ci sto”, un’altra interessante iniziativa letteraria è stata lanciata in Campania, e precisamente a Polla, in provincia di Salerno, per promuovere e favorire la lettura da parte dei ragazzi dai 10 ai 18 anni, “Il Libro sospeso”.

“Il Libro sospeso”, che nasce nella Libreria Ex Libris Cafè, prende spunto dall’antica pratica del “caffè sospeso napoletano” per i poveri, quando al bar si lasciava un caffè già pagato, a vantaggio di chi entrava nel bar e non poteva pagarlo, oppure quando una persona era particolarmente felice perché aveva qualcosa da festeggiare, perché aveva cominciato bene la giornata, beveva un caffè e ne pagava due, per chi sarebbe venuto dopo e non poteva pagarselo.

Un caffè offerto all’umanità insomma, un’abitudine filantropica e solidale, ormai in declino, che rende onore alla cultura partenopea. Di tanto in tanto qualcuno si affacciava alla porta e chiedeva se c’era “un caffè sospeso”, e spesso riceveva in cambio anche un semplice sorriso.

Nel 2008, lo scrittore Luciano De Crescenzo ha raccolto una serie di articoli di giornali, considerazioni e aneddoti su questa abitudine che ha avuto successo in molti Paesi del mondo, intitolandoli Il caffè sospeso. Saggezza quotidiana in piccoli sorsi. Il 10 dicembre 2011 la “Rete del Caffè Sospeso” ha istituito la “Giornata del Caffè Sospeso” con l’ausilio di diverse associazioni culturali e dal 2012 l’organizzazione onlus 1 Caffè cerca di riproporre questa tradizione a scopo benefico e su base volontaria.

L’usanza tradizionale ha dato spunto, come si è accennato all’inizio, ad iniziative simili in altri settori del consumo, primo tra tutti in quello della piccola distribuzione libraria, dove ha cominciato a prendere piede un’iniziativa che promuove un’analoga abitudine, quella del “libro sospeso” appunto, in cui il frequentatore della libreria lascia dietro di sé un libro pagato, in base a un titolo da lui scelto. E Polla ne è un esempio lampante e ci auguriamo che molte altre librerie d’Italia prendano parte alla medesima iniziativa; ecco come funziona: basta acquistare due libri, uno per te, l’altro per un ragazzo “sconosciuto” dai 10 ai 18 anni e il libro acquistato sarà preso in consegna dal libraio e consegnato a un ragazzo che si recherà in libreria nei successivi sette giorni. Per sapere a chi è andato il “libro sospeso” da te acquistato potrai chiedere in libreria oppure il nome sarà inviato alla tua casella di posta. Semplice!

In pochi giorni ci sono state diverse  richieste di adesioni da parte di altre librerie in rete in diversi luoghi d’Italia, non si esagera se si afferma che questa intelligente moda letteraria stia dilagando. L’iniziativa come è evidente si rivolge soprattutto a chi è desideroso di favorire la lettura tra i ragazzi e ai ragazzi stessi al fine di invertire la tendenza dei cittadini italiani ad allontanarsi dalla lettura.

A questo gioco solidale ha aderito anche Librerie Feltrinelli, agganciandosi allo hashtag #librosospeso.

 Nell’epoca del pensiero unico,  e in queso periodo di crisi, che soprattutto culturale, la libera repubblica dei lettori continua a mostrarsi irriducibilmente anarchica e ancora una volta la Campania dimostra di tenere molto alla letteratura.

Se  quindi avete dai 3 ai 18 anni, andate nella libreria Ex Libris Café, a Polla, fondata da Michele Gentile, che ha avuto questa geniale intuizione che è stata poi rielaborata da altre librerie, come quelle di Palermo, la Modus Vivendi, di Milano, Il mio Libro e la Kindustria di Matelica, nelle Marche, creando anche l’hashtag #librosospeso che sta sbancando su Twitter. I clienti che acquistano un libro sospeso lasciano una dedica, talvolta esprimendo anche una preferenza riguardo al destinatario. L’acquirente può anche venire a sapere in che mani è finito, appagando il desiderio che quel libro donato finisca in buone mani.

Un fenomeno fortunatamente virale.

‘I pesci non chiudono gli occhi’, di Erri De Luca

La voglia di crescere, di cambiare, quel desiderio di vedere il corpo maturare, trasformarsi; c’è tutto questo in I pesci non chiudono gli occhi dello scrittore partenopeo Erri De Luca.

“L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni. Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio inceppato dalle altre estati, rimescolato dentro e fermo fuori.”

Erri De Luca torna, nel 2011, con un romanzo edito da Feltrinelli, infarcito di frasi che sembrano poesia. Una musica che accompagna una dolce e amara malinconia, sembra attorniare queste pagine. Un uomo che torna indietro con la propria mente, la guerra, il dopoguerra, gli americani, i tedeschi, una città distrutta e un padre che cerca fortuna altrove. Ancora un’isola, probabilmente Ischia, dove De Luca aveva ambientato “Tu, mio”, dove trascorrere l’estate, tra enigmi da risolvere e due nuovi occhi da guardare.

Da quei cinquant’anni tutto è cambiato, tutto o niente. Quel bambino è ancora li, ricorda e sente, sente e ricorda. Vede ancora quegli adulti, conosciuti attraverso i libri del padre, nient’altro che “…bambini deformati da un corpo ingombrante. Erano vulnerabili, criminali, patetici e prevedibili.”  

Nelle parole di De Luca conosciamo un altro piccolo protagonista senza volto, siamo noi, è lui, siamo noi. Un’infanzia fatta di silenzi, di sguardi persi nel vuoto, in quella voglia di cambiare, di apportare al corpo quella trasformazione che la mente già sente sua, in ogni più piccolo centimetro di essa. Ma il corpo resta li, fermo, immobile, e allora resta da scegliere una strada da percorrere per forzarlo, quel cambiamento. Con una rottura dello stesso corpo, solo così, qualcosa, sarebbe cambiato.

Le parole scorrono con dolcezza, attraverso quella malinconia che ci riporta indietro ogni qual volta osserviamo i luoghi che hanno accompagnato la nostra infanzia, quei luoghi fatti di quegli attimi che ci hanno cambiato. E allora il bambino cambia, il corpo inizia la sua trasformazione, “forzata”; attraverso il sangue, le lacrime nascoste, prese di posizione di fronte ad una madre che non sa scegliere, che sembra aver bisogno dell’appoggio di un “bambino” di dieci anni per trovare le sue risposte. O è forse quel bambino, a sentire di doverle dare, quelle risposte.

Il romanzo, racchiuso nella sua dolcezza, ci parla di una storia ordinaria, ma indimenticabile. Poche parole, poche notizie, piccoli accenni, spesso brevi commenti. L’indispensabile per raccontare quei momenti che tutto cambiano.

E poi lui, quel sentimento che sconvolge l’animo, che lo riempie e lo svuota, che smuove dentro, che arricchisce con le sue mille ferite. L’amore, quel solo verbo, “amare”, che il bambino non riesce a comprendere. I grandi se ne riempiono la bocca senza nemmeno sapere cosa sia. Ma quell’estate anche questo cambia. L’ amore arriva e ha due occhi che, il nostro giovane protagonista non riesce a smettere di guardare.

“Ero rimasto immobile a guardarla. “Ma tu non chiudi gli occhi quando baci? I pesci non chiudono gli occhi.””

I racconti di quei momenti che riportano all’ infanzia, si alternano ai pensieri dell’uomo ormai divenuto adulto: lo scrivere di oggi, il salire su un palco a strimpellare la chitarra, la morte dei genitori, la mano di sua madre che posava tiepida sulla fronte, fino all’ultimo. E ancora la madre, che amava tanto gli scrittori e che lo amava, anche come scrittore. Spesso, quando qualcuno dei suoi libri le era particolarmente piaciuto, lo guardava e diceva “Aro’ sì asciuto?” (Da dove sei uscito). E lo stupore, accompagnato da un dolce sorriso, per quell’amore, per quel verbo che, ancora oggi, gli adulti non sono in grado di comprendere.

Lo scrittore si lascia andare ad un certo autocompiacimento, ma le pagine scorrono veloci. I pesci non chiudono gli occhi è nn altro libro da “divorare”, come tutti quelli con cui lo scrittore napoletano ci ha appassionato. E quella lingua, il napoletano, quella che anche chi non la conosce, non può fare a meno di amarla. E così, Erri De Luca, torna a Napoli, noi camminiamo accanto a lui, ascoltiamo quella musica dolce, quella malinconia che accompagna le nostre giornate, gli anni che passano, inesorabili, come il tempo che corre troppo velocemente. Ma a De Luca, come un dono, è stato fatto quel dono che si concede solo ai grandi scrittori. Lui lo ferma il tempo, il nostro tempo, quello passato: ai ricordi andati, rimasti in quell’isola dove, quel tempo da bambini, si fermava per imparare a vivere.

“Capivo all’indietro quello che succedeva dentro i libri, quando uno si accorge della specialità di un’altra persona e concentra su quella l’esclusiva della sua attenzione. Capivo l’insistenza di isolarsi, starsene in due a parlare fitto. Non c’entrava per me il desiderio, quell’amore chiudeva con l’infanzia ma non smuoveva ancora nessun muscolo degli abbracci. Scintillava dentro, mi visitava il vuoto e me lo illuminava.”

Montedidio, di Erri De Luca

“Fai bene a dire tenere invece di avere. Avere è presuntuoso, invece tenere lo sa che oggi tiene e domani chi sa se tiene ancora.” Montedidio di Erri De Luca è una storia narrata con dolcezza e passionalità, con amore e orgoglio in quella lingua, quel dialetto che ti si “appiccica” addosso se sei nato e cresciuto a Napoli.

Non siamo a Gerusalemme, bensì a Napoli in uno dei suoi luoghi più antichi, forti, colmi di storia, di realtà, di verità, quella che scorre nelle vene, quella che non puoi dimenticare, allontanare, ma solo vivere. Un ragazzino sembra essere il protagonista di uno dei libri più belli scritti da colui che continua ad emozionarci con quel dialetto, quella lingua e tutto dice attraverso poche parole, piccoli gesti.

L’italiano è una lingua senza saliva, il napoletano invece tiene uno sputo in bocca e fa attaccare bene le parole. Attaccata con lo sputo: per una suola di scarpa non va bene, ma per il dialetto è una buona colla.”

Ma qui, tra queste pagine, ancora una volta nei romanzi di De Luca, la nostra protagonista è Napoli, raccontata e vissuta. Un ragazzo mette per iscritto i suoi pensieri, la sua vita. A tredici anni impara il “mestiere”, l’italiano, “l’ammorre”, quello con due emme, quello che forse non puoi raccontare. O forse si. Perchè lui, Erri De Luca, ci riesce. Riesce a spingersi oltre con semplicità e dolcezza, riesce a portarci in quei quartieri, vicoli, strade stretta dove anche i fantasmi sembrano non avere pace.

“… per le scale di sera passano gli spiriti. Senza il corpo hanno nostalgia solo delle mani e si buttano addosso alle persone per desiderio di toccare.”

Il primo lavoro è nella bottega di un falegname dove il nostro piccolo “protagonista” di Montedidio incontra e conosce un vecchio ebreo giunto a Napoli solo per caso. La sua meta era un’altra, Gerusalemme, appunto. Giunge in treno Don Rafaniello. E lì, mentre osserva e spera, odori, rumori, un qualcosa d’immenso mai visto prima lo porta in quella città, in quel paradiso che nessuno sembra aver compreso, non ancora, non oggi, non ora, non qui. Don Rafaniello resta a Napoli, insegna al piccolo bambino che vuole diventare uomo, a osservare la gente, il loro modo di stare al mondo, a comprendere i loro sogni, quei desideri nascosti, quegli adulti che non sanno che farsene della felicità. L’infelicità sembra più facile, si attacca addosso, come la colla, come il napoletano, come quella lingua.

Un mistero avvolge la vita di questo vecchio ebreo, una predizione, il sopraggiungere di quella fine, lieve, tanto attesa, che porta sollievo. Le ali di un angelo, o forse è lui, quell’angelo.

E poi il degrado familiare, la malattia della madre, un padre assente e l’ammore, quello per Maria. Una ragazzina, una bambina che la vita e le attenzioni malsane del padrone di casa hanno reso già grande. E ancora lui, il nostro piccolo uomo che sogna di salvarla, la sua amata e continua a vivere accanto a quell’angelo ebreo aspettando quelle ali che spunteranno dalla sua gobba. Lui lo sa, è solo questione di tempo. Volerà.

E poi un’immagine. Un oggetto che percorre le pagine di questo romanzo. Un pezzo di legno magico, un “bumeràn“, un regalo ricevuto dal padre con cui il ragazzo si allena ogni giorno, ma senza farlo volare. Aspetta, osserva. Lì non c’è spazio, presto ce ne sarà.

“…sopra questo quartiere di vicoli che si chiama Montedidio se vuoi sputare in terra non trovi un posto libero tra i piedi”.

Ma sarà questo continuo esercizio a portare in lui la consapevolezza del cambiamento. Il corpo cresce e cambia, così come la mente, i pensieri. Bisognerà attendere quella notte, la notte di capodanno. Quella notte in cui tutto finisce e tutto ha inizio. La notte della profezia, la notte del volo di un angelo, la notte fatta di libertà e speranze. Una notte che lascia “due piume e un paio di scarpe“.

“Le Monde” ha definito Montedidio il miglior lavoro di De Luca. In un tempo che sembra essere avvolto in un solo secondo, lo scrittore napoletano mostra un’adolescenza mai cominciata. Dal primo giorno di lavoro all’ultimo giorno dell’anno tutto sembra svolgersi in un istante. Un tempo veloce e inesorabile. E ancora lei, Napoli. Le sue strade, la sua forza, la sua voglia di essere compresa, l’impossibilità di riuscirci. Non tutti sono nati per capirla, questa città. I tentativi di capire, comprendere. Capire se stessi, capire ciò che cambia e ci avvolge, capire il mondo, quello degli adulti e quello che tocca la vita, in ogni sua sfumatura.

Piccoli capitoli, brevi, forti, intensi. Immagini che escono fuori attraverso poche parole. Eccolo. Un altro. Un capolavoro. Un’opera degna di essere vissuta.

“Mi chiedo da solo: non me ne potevo accorgere per conto mio di esserci? Pare di no. Pare che ci vuole un’altra persona che avvisa.” 

‘La pelle’: il viaggio nel ventre di Napoli di Curzio Malaparte

Kurt Erich Suckert, in arte Curzio Malaparte ha raccontato il canto del cigno della Napoli durante la seconda guerra mondiale nel suo romanzo più conosciuto, La pelle, un viaggio inquietante ed atroce nel ventre di Napoli (1950).

Lo pseudonimo è stato da lui ideato basandosi in chiave umoristica sulla paranomasia del termine “bonaparte”. Definito “cinico e compassionevole”, sostenitore in un primo momento del fascismo, giungendo in seguito ad opporsi ad esso, Malaparte è stato uno scrittore dallo stile realistico e a tal proposito Eugenio Montale ha detto di lui: «Un parlatore squisito e un grande ascoltatore pieno di tatto ed educazione».

La fama di Malaparte è cresciuta soprattutto all’estero con i romanzi Kaputt (diario di guerra che evidenzia le atrocità di quest’ultima tra cui le deportazioni degli ebrei rumeni, e spesso accusato di autocompiacimento) e La pelle. Quest’ultimo romanzo, continuazione di Kaputt, è stato pubblicato nel 1949 presso le edizioni Aria d’Italia e ripubblicato con Adelphi, non è altro (così come il romanzo precedente) che un resoconto autobiografico in cui l’autore narra dell’occupazione alleata in Italia dal 1943 al 1945 e ambientato per la maggior parte a Napoli. Si tratta infatti dell’esperienza di guerra dell’autore stesso quando ha svolto funzioni di ufficiale di collegamento aggregato all’Alto Comando Americano in Italia.

Prima dell’incipit, Malaparte  ha apposto tale dedica: «All’affettuosa memoria del Colonnello Henry H. Cumming, dell’Università di Virginia, e di tutti i bravi, i buoni, gli onesti soldati americani, miei compagni d’arme dal 1943 al 1945, morti inutilmente per la libertà dell’Europa».

Malaparte, che durante la seconda guerra mondiale ha lavorato come giornalista, pone a confronto l’innocenza degli americani con la disperazione di un popolo ormai sconfitto, una città vinta in un mondo di vinti, mettendo soprattutto in dubbio e concentrando la sua attenzione sulle interpretazioni moralistiche del conflitto. Il soffermarsi sulla situazione partenopea, la sua decadenza, la disperazione degli abitanti che sono disposti a far di tutto pur di sopravvivere (addirittura vendere i propri cari, o la dignità), è un po’ come evidenziare la presunta fine dell’Occidente. Napoli è vista dunque come metafora dell’Europa.

Tra le scene descritte nel romanzo non possiamo non annoverare la bellissima descrizione dell’eruzione del Vesuvio. Gli uomini che scappano, il caos totale, Vesuvio visto come forza purificatrice che può debellare il morbo insinuatosi nella città. Quindi una “rinascita”: distruggere per ricostruire, cancellare per ridisegnare.

La Pelle è una “rivelazione d’orrori” e Malaparte rimanda continuamente a tumulti provenienti dai vicoli della città, voci, clamori, una città che si sente attaccata. L’autore è stato spesso accusato non solo di aver descritto i “giorni bui” dell’occupazione alleata, interpretandoli secondo la sua visione, ma addirittura di provare gusto con queste macabre descrizioni (corpi straziati, sangue ovunque, miseria), oltre alle pagine definite “dello scandalo” dove emergono dettagli come le parrucche bionde sui sessi delle brune per invogliare i neri, la figliata omosessuale, insomma scene forti, inconsuete, che restano impresse quasi fossero un oltraggio ai napoletani.

Il critico Emilio Cecchi si è espresso negativamente nei confronti del romanzo di Malaparte, definendo l’autore un “fabbricante di bolle di sapone terroristiche”. Malaparte dal canto suo ha raccontato a suo modo come aveva partecipato alla liberazione di Napoli e di Roma insieme alla Vª Armata del generale Clark attraverso il tema dell’ orrore dei vinti e gli abusi dei vincitori, rappresentato in una Napoli che era stata popolata da un ciarpame di fatti e di misfatti, alcuni veri, altri  inventati di sana pianta, con uno stile che va dalla decadenza dannunziana all’espressionismo, dal barocco al surrealismo. Secondo alcuni infatti l’intento dello scrittore è stato quello di mostrare che tutti (o quasi) gli americani erano stupidi, mentre che gli italiani, e soprattutto i napoletani erano ignobili e squallidi; tra le due misere categorie si illumina di luce propria  l’unico  onesto, intelligente, raffinato che era proprio Curzio Malaparte, ascoltato dai generali americani ai quali impartiva lezioni di buone maniere e di storia italiana, e rispettato da tutti. Considerazioni legittime ma probabilmente l’intento di Malaparte andava ben oltre l’autocelebrarsi come unico detentore della cultura e dell’educazione italiana, sebbene ci presenti immagini e situazioni “d’alta macelleria” che mirano a colpire la coscienza e la sensibilità di ognuno di noi.

La pelle è un romanzo iperrealista, intriso di lirismo, arricchito di precise descrizioni ambientali (alla Maupassant: <<Simile a un osso antico, scarnito e levigato dalla pioggia e dal vento, stava il Vesuvio solitario e nudo nell’immenso cielo senza nubi, a poco a poco illuminandosi di un roseo lume segreto, come se l’intimo fuoco del suo grembo trasparisse fuor della sua dura crosta di lava, pallida e lucente come avorio: finché la luna ruppe l’orlo del cratere come guscio d’uovo, e si levò estatica, meravigliosamente remota, nell’azzurro abisso della sera>>, e ancora: <<Gli anni, la pioggia, il sole, l’abbandono, hanno stancato, addolcito quel rosso vivo, dandogli il colore della carne, qua rosea, là chiara, più in là trasparente come una mano davanti alla fiamma della candela. E fossero le screpolature, fossero le verdi macchie di muffa o quei bianchi, quegli avori, quei gialli smorti, propri della carne umana già stanca, già vecchia, già solcata di rughe, già prossima all’ultima, meravigliosa avventura del disfacimento. Grasse mosche erravano lentamente su quel muro di carne, ronzando..>>.

La vera oscenità del romanzo non sta tanto del descrivere il cannibalismo pagano puramente estetico, che ha irritato e scandalizzato la Chiesa, ma la tragedia che investe vincitori e vinti i quali si divorano a vicenda, l’umanità perduta di una città, il suo nichilismo, la sua inquietudine. I limiti de La pelle sono semmai individuabili nella resa dei personaggi e nella trama stessa, assoggettate dalla “bellezza” delle descrizioni rese nei  minimi particolari secondo un periodare frenetico, così come il susseguirsi delle scene e degli eventi. Malaparte dunque non è più scrittore, né uno storico; il suo intento è quello di fornire un’opera d’arte. Nel 1950 il romanzo, proprio per le sue crude descrizioni della vita quotidiana (spesso sfocianti in grottesco) è stato condannato dal Vaticano e messo all’ Index Librorum Prohibitorum.

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