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Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

Ricordando Lucio Dalla, fautore del pop d’autore apprezzato da milioni di appassionati, a sei anni dalla sua scomparsa

Lucio Dalla

Nato, come è ben noto a tutti, il 4 marzo del 1943- un giorno prima di un altro immenso Lucio, quel Battisti così lontano e vicino dal ragno di Bologna- Lucio Dalla rimane quasi subito orfano di padre. Figlio unico, cresce con la madre a Bologna. Questa donna, Jole Melotti, avrà un ruolo centrale nella sua vita. A detta dello stesso Dalla infatti è stata lei a convincerlo della sua genialità, a fare da agente, sponsor e talent Scout ante litteram. Dopo un fulmineo percorso da autodidatta, Lucio, profondamente insofferente alla scuola, già a 17 anni è a Roma a fare musica. Affascinato dai ritmi del Jazz nero americano Dalla inizia a suonare il clarinetto. Appassionato di tutti i grandi del genere, da Chet Baker a Miles Davis, il musicista da cui trae maggiormente ispirazione è Thelonious Monk, un rivoluzionario pianista statunitense a cui Lucio, nelle varie interviste rilasciate negli anni, non smetterà mai di fare riferimento. Si sente artista Dalla: ha poco a che fare con la canzonette all’Italiana, il cui panorama dell’epoca, ancora spoglio della stagione dell’impegno degli anni settanta, è dominato da campioni del nazional-popolare come Claudio Villa, da miti mediterranei della canzone “confidenziale” alla Fred Bongusto, il tutto avvolto nell’eco “Sinatriano” di Fred Buscaglione, scomparso prematuramente nel 1960. Un mondo lontano dalle sensibilità del futuro cantautore bolognese, musicista nel senso più pieno del termine.

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Per un razionalismo postilluministico: Dipesh Chakrabarty e la necessità di ripensare la storia

Storia

Il pensiero europeo uscito dalla cristianità medievale e tuffatosi nell’Illuminismo più audace si è fin da subito trovato di fronte a una sfida tuttora insoluta, la possibilità di pensare l’universale senza poter più contare su un quadro di riferimento religioso e tradizionale, e dunque, per definizione, assoluto. Le costruzioni del pensiero post-cristiano hanno progressivamente enfatizzato oltremodo il ruolo della ragione fino a eleggerla ad arbitro assoluto di qualsiasi disputa, sia teoretica che pratica. Tutta la modernità si definisce in relazione a una simile impresa. L’universale, pertanto, si presta, a tutt’oggi, come raggiungibile solamente per il tramite di una ragione secolarizzata e disincantata. Neanche il campo di studi delle scienze umane è rimasto impermeabile a una simile impostazione epistemologica, e i suoi concetti avanzano parimenti una presunzione di universalità, nella pretesa di categorizzare rigidamente l’umano in nozioni rigorose e date una volta per tutte, nonché trasparenti a una ragione immune da suggestioni spirituali e metafisiche. In questo quadro, la narrazione storica stessa, sia essa basata su una visione teleologica (il progresso) o semplicemente su un’idea di sviluppo (lo storicismo), acquista un significato specifico, divenendo uno dei principali alleati dell’Illuminismo nella lotta contro la superstizione e nel raggiungimento dell’universale.

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Tony Iwobi e il razzismo degli antirazzisti, ipocriti quanto l’ideologia che sostengono

Iwobi

Un giovane nigeriano proveniente da una famiglia modesta giugne in Italia nel 1976 con un permesso di soggiorno per motivi di studio. È uno dei primi immigrati provenienti dall’Africa nera a giungere nel Bel paese, all’epoca sull’orlo di una guerra civile, dilaniato da attentati, violenze e manifestazioni squadriste da parte dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Testardaggine, volontà di emancipazione e di riscatto sociale e tanta ambizione, questi i moventi che spingono il giovane Tony Chike Iwobi a svolgere qualsiasi lavoro, muratore, stalliere e idraulico, pur avendo in mano una laurea in Scienze informatiche conseguita negli Stati Uniti. Si trasferisce nel profondo settentrione, nella provincia di Bergamo, dove viene assunto dall’Amsa in qualità di operatore ecologico, ma pochi mesi dopo viene promosso agli uffici divenendo impiegato. Cambia tanti lavori, non più umili, ricoprendo mansioni di responsabilità presso aziende italiane e svizzere, continuando allo stesso tempo ad arricchire il suo profilo lavorativo con corsi di specializzazione seguiti in Italia e all’estero.

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‘Di un’ingannevole bellezza. Le ‘cose’ dell’arte’, l’aporeticità dell’arte secondo il filosofo teoretico Massimo Donà

bellezza, arte e letteratura

Per troppo tempo la filosofia italiana, ancora nella seconda metà del secolo XX, ha patito giudizi ingenerosi indotti dalla vulgata diffusa dalla cultura neo-azionista, stando alla quale, a causa dell’egemonia neo-idealista nella prima metà del secolo ‘breve’, il sapere teoretico del nostro paese sarebbe stato connotato da un tratto provinciale e da marginalità speculativa. In seguito, data la marcia trionfale dell’analitica anglosassone, la speculazione italiana, nonostante qualche nome di prestigio, non sarebbe stata più in grado di colmare il gap d’origine. Non si tratta qui di voler proclamare primati, ma ci pare indubitabile, alla luce del dibattito in corso in tema, che lo schema storiografico esposto, sia infondato e fuorviante. Attorno ai grandi nomi del pensiero italiano del secondo Novecento si sono formate vere e proprie scuole che, sia pur il più delle volte controcorrente rispetto all’indirizzo generale del pensiero europeo, hanno dato ottima prova di sé. Basti qui fare, tra gli altri, i soli nomi di Luigi Pareyson, Emanuele Severino e Massimo Cacciari. Tra i filosofi italiani contemporanei Massimo Donà occupa un posto di rilievo. Egli si è formato dapprima con Severino e, successivamente, con Cacciari, Vitiello e Sini. Sta perseguendo, con coerenza, un percorso teoretico originale e fuori dal coro. Nella sua ultima pubblicazione, Di un’ingannevole bellezza. Le ‘cose’ dell’arte, edita da Bompiani, riapre la discussione sul tema che ha presentato in Teomorfica. Sistema di estetica, uscito nel 2015 per i tipi dello stesso editore milanese.

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‘San Tommaso d’Aquino’ di Chesterton: chiarimenti di alcuni equivoci sul tomismo che hanno compromesso la reputazione del cristianesimo in Europa

san tommaso d'aquino

Chesterton scrisse quest’opera nel 1933, quando la crisi del ’29 ancora dava i suoi tremendi colpi al mondo anglosassone ed americano e nell’anno in cui Hitler vinceva le elezioni in Germania. Qualche anno prima si era cimentato nella agiografia di San Francesco, che era stata l’opera prima dopo la sua conversione al cattolicesimo. L’opera su San Tommaso è breve ma densissima, complicata ma a tratti di vera genialità, tant’è che riscosse la stupefatta ammirazione di tomisti di lungo corso e di chiara autorevolezza, come Jacques Maritain e Anton C. Pegis. Perché quest’opera è così importante? Come si riallaccia al discorso sulla riscossa europea grazie alla rinascita della Fede cristiana? In che modo quest’opera ha a che fare con la convinzione che la Fede cristiana possa tornare ad essere cardine e fondamento della civiltà europea, e non soltanto un orpello vuoto al servizio dei politicanti, come lo è stato quasi sempre nell’ultimo secolo? Perché Chesterton parlando di Tommaso parla del tomismo, e chiarendo alcuni equivoci sul tomismo chiarisce alcuni equivoci che hanno compromesso moltissimo la reputazione del cristianesimo in Europa, che si sono annidati come pregiudizi e si sono insidiati nella mentalità condivisa. Quello di Chesterton è più di una biografia di Tommaso: è un libro fondamentale (definitivo, dice Luigi Negri nella prefazione) sul cattolicesimo, su cosa sia e cosa debba rappresentare, lontano dalle mistificazioni e dagli equivoci che l’hanno screditato negli ultimi secoli. In realtà l’opera di Chesterton parte dalla vita di Tommaso, così densa di pensieri ma relativamente povera di fatti, per approdare ad una disamina, breve e folgorante, della dottrina tomista. Il racconto della sua vita sfocia nell’incontro con la sua opera, perché l’uomo fu tutto devoto all’opera, alla sua missione per conto di Dio: rendere giustizia al tomismo è il modo migliore di omaggiare la vita di San Tommaso.

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La notte degi Oscar tra femminismo d’accatto, propaganda e opposti moralismi

Oscar 2018

Mentre qui in Italia si consumava l’ultimo atto della folcloristica parata elettorale, con i cittadini in fila alle cabine di voto, oltre oceano, anzi, sulle rive dell’opposto oceano, il Pacifico, il 4 marzo andava in scena la non meno stucchevole parata degli Oscar. Non è nostra intenzione scadere nell’antiamericanismo d’accatto solo per acciuffare qualche plauso. D’altro canto, l’indifferenza o il non prestare la dovuta attenzione ad un fenomeno che si vorrebbe relegare nella cronaca di costume e spettacolo è ancor più sciocco e segno di profonda cecità. La democrazia liberale coltiva le sue gioiose vittime in molti modi. Anch’essa, sebbene in maniera più subdola rispetto ai regimi totalitari si regge e alimenta attraverso la propaganda. Il consenso è lo sgabello ai suoi piedi. Laddove non sia già pronto, utilizza ogni stratagemma per procurarselo. Lo fa certo nei comizi o dibattiti politici dove ha imparato a soppesare ogni parola. E se qualcosa malauguratamente sfugge dalle labbra poco attente, allora poi è sufficiente ritrattare non appena si intuisce il vacillare della popolarità. Ciò che conta non è più, in effetti, quello che si dice, ma il come esso viene detto. Misteri ultimi della più avanzata fra le scienze, o forse dovremmo dire fra le arti illiberali: la comunicazione.

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L’amore è dialogo, preludio di una relazione stabile che cresce mentre si consuma, come ci suggerisce il dipinto di Friant ‘Les Amoureux’

amore

Forse, da sempre, abbiamo dell’amore un’immagine incompleta e unilaterale. Confermata da secoli di letteratura e di storia dell’arte. È l’amore come passione incontenibile, come desiderio che non sa trattenersi e che si libera andando ad abbracciare e a baciare la persona amata. Tutta la storia dell’arte, in fondo, è costellata da raffigurazioni di questo tipo. E se l’amore fosse anche altro? È quanto ci suggerisce uno splendido quadro di Émile Friant (Dieuze, 16 aprile 1863 – Parigi, 9 giugno 1932), intitolato "Les Amoureux" (1888), “Coloro che si amano”. Sullo sfondo, un suggestivo paesaggio fluviale, con dolci colline verdi immortalate, verosimilmente, quando l’autunno inizia a sopraggiungere. In primo piano, i due innamorati: raffigurati – questo l’aspetto più interessante – in maniera diversa e non convenzionale rispetto a secoli di tradizione artistica. Non si baciano, né si abbracciano: non è l’elemento della passione amorosa a prevalere. Parlano tra loro, in dialogo. Che siano innamorati e non semplici interlocutori è rivelato, oltre che dal titolo, dallo sguardo con cui ciascuno contempla l’altro.

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Oscar 2018: vince ‘La forma dell’acqua’, premiato anche il film dell’italiano Guadagnino per la migliore sceneggiatura non originale

Oscar 2018

In una serata degli Oscar che ha rispettato tutti i pronostici dei bookmakers e che non riservato sorprese o scossoni il vero vincitore è stato La Forma dell'acqua di Guillermo del Toro, che ha vinto quattro Oscar, tra cui quello per il miglior film. Subito dietro, anche se per Oscar minori, Dunkirk di Christopher Nolan con tre, seguito da Tre manifesti a Ebbing, Missouri, che ha vinto per il migliore attore non protagonista e la migliore attrice protagonista, Francis McDormand. Con due Oscar invece L'ora più buia, che ha vinto sia per il make up che con il migliore attore, Gary Oldman. Due Oscar anche per Blade Runner 2049, ma non quello per la scenografia che vedeva in corsa l'italiana Alessandra Querzoli. Soddisfazione anche per Coco, il film animato della Pixar, vincitore di categoria e per la migliore canzone originale. Un Oscar è andato anche a Get Out, migliore sceneggiatura originale, e a Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino per quella non originale di James Ivory. Un Oscar anche a I, Tonya per l'interpretazione da non protagonista di Allison Janney in una serata che non vede film sconfitti malamente tornare a casa a mani vuote.

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