Dal Novecento l’insoddisfazione contratta dall’uomo medio è rimasta inalterata. Ci si sente sempre più parte di un sistema che non si approva, impotenti, succubi di decisioni altrui, o, peggio ancora, delle proprie. Si tende sempre ad accontentarsi e la paura di sentirsi soli, la paura di non trovare lavoro, più semplicemente la paura di non farcela ci governano. Spesso la paura ci porta a scegliere un certo lavoro piuttosto che un altro, la paura ci porta a fare scelte che non vorremmo fare, a sacrificare i nostri interessi, spesso per quelli di qualcun altro. L’uomo comune di oggi si può definire un inetto (senza offesa). L’inetto è la figura letteraria introdotta da Italo Svevo nella sua trilogia di romanzi scritti tra il 1892 e il 1923. Probabilmente non è corretto definire l’inetto come una figura letteraria, ridurlo alla sfera della fantasia e dell’immaginazione dell’autore. Non scordiamoci che l’elemento autobiografico nei romanzi di Svevo è centrale. Prima di essere scrittore l’autore è un impiegato in un azienda, come ce ne sono stati molti il secolo scorso e come ce ne sono tuttora.
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Svevo: Allora, come si sente? Fedeli: Mi sembra di vedere cose non vere? Svevo: Tipo la laurea? Fedeli: Come scusi? Svevo: Sa, è tipico, lei ha preso un pugno in faccia. Fedeli: No, ma la laurea me la sono inventata prima del pungo, non c’entra nulla. Svevo: Ah ok, quindi era consapevole di inventarsela? Fedeli: Sì, sì, certo!
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Nel 1927, licenziando la seconda edizione di Senilità, Italo Svevo scriveva: <