“Non ora, non qui”, di Erri De Luca

“Molti particolari non formano un ricordo, molti ricordi non costituiscono un passato.” Torniamo indietro nel tempo attraverso le parole di colui che è stato definito “lo scrittore del decennio“. Erri De Luca, in “Non ora, non qui”, opera che ci sembra di comprendere a fatica nelle sue prime pagine, ci insegna in un silenzio fatto di dolci parole, l’intimità di un ricordo forse sepolto nella memoria. Il tempo è distanza, malinconia. Una malinconia che di dolce non ha più nulla. Un tempo che torna a galla dalla memoria sepolta. Quella memoria che, forse, spesso, cerchiamo di cancellare.

Un bambino di nove anni, il dopoguerra, le difficoltà della vita, una vita crudele che non ha rispetto per niente e nessuno. Un trasloco che lo porta lontano, un primo passaggio verso quell’età adulta che una volta giunta, cerchiamo di allontanare con tutte le nostre forze. Una povertà che si cerca di combattere, di capovolgere. Vista e vissuta da lontano con la sola certezza di essere strappato dalle proprie radici, dalla propria vita, dalla sua Napoli. E poi lei. Una madre che sembra non comprendere. Un figlio lasciato a se stesso, a quelle parole che non vogliono uscire accanto a quel mondo che non sembra volerlo accettare per quello che è.

“Così si snodava il reparto familiare: genitori preceduti dalla figlia e seguiti con lieve ritardo da me.

La difficoltà nel parlare porta con se una fatica incontrollabile di avvicinarsi al mondo.  Perchè questo mondo non ammette quella sensibilità, non ora, non in questo momento. Forse mai. “Non ora, non qui.

Da bambino non ammettevo il passato.” De Luca, con quella dolcezza, quella sensibilità che ci porta ad amare ogni sua parola, ci riporta indietro. A quel rapporto materno che ha condizionato le nostre vite. A quelle paure che ci hanno reso più forti o forse solo più soli. Una solitudine difficile da combattere, impossibile da comprendere.

L’opera prima dell’autore napoletano, ci mostra una madre e un figlio, una foto, un’immagine che nella nostra mente sembra essere sbiadita, ma che diventa più chiara pagina dopo pagina, parola dopo parola. Una donna frustrata dalla propria condizione, dalla propria vita, una donna che non riesce a capire, una donna sola.

Ancora una volta ci siamo noi nelle parole dello scrittore napoletano. Siamo nei suoi protagonisti, una madre e un figlio. Siamo nelle immagini che la nostra mente crea legata ad ogni frase. Siamo nella sua malinconia, nella sua dolcezza, in una morte che sembra giungere lenta e ancora una volta legata al volto materno. Siamo in quei ricordi. In quel legame che non può spezzarsi. Siamo la madre. Siamo il figlio.

Amarezza, tristezza, bellezza. Elementi ricorrenti nelle opere di De Luca, il cui talento sta nel riuscire a coinvolgere tutti, a prescindere dall’età, dal livello di istruzione e dal ceto sociale, ma senza autocompiacenza. “Non ora, non qui” sussurra ai lettori, attraverso una scrittura colta che si nutre di filosofia che per qualcuno può risultare noiosa ma che ci fa comprendere il senso delle parole usate dallo scrittore che riflette sulla società moderna e su quello che conserviamo dentro. In questo senso il romanzo di De Luca è democratico e spiazzante nel finale.

E poi ancora un’immagine. Un finestrino di un autobus; è da li che il nostro protagonista osserva la propria madre. Ora ha sessant’anni. Torna indietro e noi con lui. Un racconto che entra nel racconto. Un momento in cui madre e figlio giungono ad essere coetanei, ma legati da quell’incomprensione che durerà fino all’ultimo istante, fino a quell’ultima parola.

Un romanzo che si presenta con una forza indistruttibile. Una lacrima che scende dopo quell’ultima frase.; è così, è inutile negarlo. Erri De Luca è lo scrittore del millennio.

“Avevi ragione, molte delle cose che mi sono accadute furono errori di tempo e di luogo, cose da dire: non ora, non qui.”

 

“La Metamorfosi”, il romanzo-confessione di Kafka

Protagonista de La Metamorfosi è Gregor Samsa, commesso viaggiatore, vive una notte piena di incubi e, come d’improvviso, si risveglia trasformato in scarafaggio. Gregor crede di sognare ma l’impatto che segue è traumatico, il racconto che ne fa ripugnante. Questo è l’esordio: Gregor fa tardi a lavoro. I familiari, essendosi accorti del suo strano ritardo,  giungono ma nessuno immagina, nessuno comprende. Arriva poi anche il suo capo-ufficio, preoccupato per l’assenza.  Gregor è lì, dietro la porta ma è inerme, non riesce ad alzarsi dal letto, ad aprire la porta, vorrebbe spiegarsi, muoversi,  ma risultano tutti disperati tentativi. Quando la porta si apre, la madre sviene e tutti assistono alla più terribile delle scoperte. L’orribile scarafaggio viene costretto a rintanarsi nella sua stanza, troppa è la vergogna, bisogna nasconderlo.

Lo Scarafaggio passeggia per le pareti, cerca di far sentire la sua presenza ma tutti ignorano. La famiglia, di stampo piccolo-borghese, venuto meno il lavoro di Gregor che si occupava del sostentamento di tutti, vive in ristrettezze economiche. Si hanno dei capovolgimenti devastanti che rompono ogni equilibrio. Il padre non è più quell’uomo severo che trascorreva la sua vita osservando, a distanza,  quella del figlio. Il figlio-scarafaggio ed il padre-padrone adesso giocano a rincorrersi. La sfida è nella fuga di Gregor, perché essere un insetto costitutiva una colpa imperdonabile. La madre e la sorella Grete sono figure onnipresenti ma emotivamente imperscrutabili. La famiglia, che dovrebbe proteggerlo, lo evita e lo isola. Continuare ad esistere, per Gregor, è il gesto più coraggioso e rivoluzionario che possa compiere. Nella nuova vita del commesso viaggiatore, c’è pietà e c’è orrore. I ruoli cambiano ma restano ingombranti. Gregor vorrebbe controllare tutto, ma i suoi pensieri restano intrappolati nella testa incastrata in un corpo repellente con cui dovrà necessariamente convivere. La dimensione umana e quella naturale coesistono. Il nostro protagonista  non  puo’ evadere, la regressione ha inizio proprio con la metamorfosi. E vi è tutta l’angoscia di chi conserva sentimenti umani istinti, possiede ricordi ma è diventato animale.

Ne La Metamorfosi, accanto alla trascrizione di una situazione autobiografica che riguarda il suo rapporto conflittuale con il padre, (al quale scriverà anche la famosa Lettera al Padre),  troviamo il tema della solitudine dell’uomo che viene rifiutato dalla società (con un’attenzione particolare, per forza di cose, alla quella praghese). Forte è senso di pietà che prima emerge e poi si annienta,  tipico dell’angoscia esistenziale di Kafka, considerato uno dei precursori dellesistenzialismo.

Kafka mostra come la vita senza saper vedere le cose,possa essere una condanna ( il riferimento al romanzo Con gli occhi chiusi di Tozzi viene spontaneo). Ma cosa ambisce a vedere il personaggio di Kafka? A questa domanda risponde acutamente il critico Giacomo Debenedetti nel suo Il romanzo del Novecento. Il personaggio kafkiano, secondo Debenedetti, cerca Dio in una delle immagini più consuete, severe e dolci al tempo stesso, ovvero il padre. Nell’opera di Kafka vi è la confessione di un complesso edipico, la forza dello scrittore sta anche  nella lucidità con cui analizza sul versante del visibile ciò che proviene dalle spinte e dai travagli inconsci. Il fenomenale paradosso di Kafka, come nota ancora Debenedetti, è che egli ha tutta l’aria di portare alla propria e alla nostra coscienza qualcosa che continua ad operare con l’intatta forza dell’inconscio. In parole povere Kafka riesce a farci toccare con mano l’invisibile.

In un lasso di tempo davvero brevissimo Gregor si trova a dover fare i conti con la nuova realtà che gli si prospetta. Non puo’ reagire, è impotente, preda, vittima, è l’uomo di oggi. Dall’inizio alla fine, constatiamo l’annullarsi di ogni sentimento, come in un percorso discendente. Di peggio puo’ esserci solo la perdita di ogni contatto con se stessi. Perché la nostra voce somiglia a quella di qualcun’altro? Qualcuno che però non conosciamo?  Perché il corpo che ci faceva da scudo e ci conteneva ora è corazza, guscio, limite?
La vicenda di quest’uomo solo che, rassegnato,  finisce per rifiutare il cibo e deprimersi ogni giorno di più, si conclude con la sua morte. Una morte voluta, che non causa dispiacere, come se fosse quasi meritata, attesa da padre, madre e sorella per porre fine ad una serie di incubi. In questo atteso epilogo, c’è la riconciliazione, la speranza di una nuova vita,  il mostro è finalmente esiliato e il cerchio si chiude.
LaMetamorfosi pubblicato nel 1912, ci racconta la vicenda dell’uomo immerso nella tragedia del suo tempo : un essere alienato che, però,  non si rassegna.
Ci sembra opportuno chiudere proprio con una confessione del grande scrittore:
Un’immagine della mia esistenza sarebbe una pertica inutile, incrostata di brina e neve, infilata obliquamente nel terreno, in un campo profondamente sconvolto, al margine di una grande pianura, in una buia notte invernale. (dai Diari).
 


“Il codice di Perelà”: il Cristo mancato di Aldo Palazzeschi?

Fiaba o romanzo? È questa la prima domanda che ci dovvrebbe venire in mente, avendo tra le mani “Il codice Perelà” di Aldo Palazzeschi. È lo stesso autore che ci avverte, in una frase riporatata in tutti commenti di tutte le edizioni: “Perelà è la mia favola aerea, il punto più alto della mia fantasia”. L’opera che ci troviamo davanti non può essere però una fiaba, almeno strutturalmente. Apparso nel 1911, con il sottotitolo di “romanzo futurista”, subito si presenta per quello che effettivamente è: dialoghi brevi e serrati, assenza di descrizioni, assenza di una qualsiasi voce narrante, ambientazioni fisiche appena accennate.

Le vicende di quest’uomo, fatto di fumo, che per trentatrè anni (età casuale?) ha vissuto in un camino, ascoltando tre vecchie che parlavano di filosofia (“una filosofia leggera, però”), imparando molto di come funziona il mondo, appaiono non certo prive di un certo stimolo al divertissment puro e frivolo. Non sempre, nel corso dell’opera, sarà possibile compiere una esegesi dei gesti di cui il protagonista si renderà protagonista. Il fatto che il Re gli affidi addirittura la redazione di un codice e che tutte le varie signore gli vogliano narrare le loro storie, quasi ritenendolo un redivivo arbitro del gusto di memoria latina, fanno forse pensare che nel romanzo Perelà debba svolgere un ruolo speciale, che, proprio in virtù della sua natura, gode tra gli uomini di una ammirazione e di una stima infinita. In questo personaggio, prima che in questo romanzo, la critica ci ha visto molte cose: l’interpretazione che più incuriosice, e su cui è meritevole una riflessione, è quella che fa corrispondere Perelà al Cristo. Eccone quelle che possono essere delle analogie.

Perelà sarà portato davanti a una corte e condannato, proprio come Cristo: sarà condannato per aver fatto credere di essere in potenza di fare cose grandiose, quando in realtà non è stato cosi. Anzi, ha indotto al suicidio un uomo. Durante il processo la condanna è unanime: come era stato esaltato cosi ora viene sprofondato con le considerazioni più meschine da parte dei testimoni. Forse un parallelo con la vicenda del Cristo, prima osannato poi condannato dagli stessi uomini? Il Cristo era capace di miracoli, il Perelà  no, ma è ricoperto della stessa aura di straordinarietà: allora forse sarebbe più corretto parlare di un Cristo mancato?

La condanna decisa è quella della segregazione nel Calleio, su una altura brulla e arida: e questo solo per intercessione del Re, la “massa” (come è scritto nel romanzo), ne voleva l’uccisione. È in questo punto che la narrazione sfuggente ora assume dei tratti quasi neo realistici, con le descrizioni dei luoghi e dei comportamenti delle persone, ansiose di vedere arrivare il condannato nel suo “carcere”. Imprigionare un uomo fatto di fumo. È possibile? Come presto “la massa” si rende conto, non è possibile. Perelà non si troverà, è fuggito attraverso le sbarre. Nessuno sa dove sia andato.
Nell’ultimo squarcio di narrazione, tornata stavolta ad essere affidata di nuovo ai pensieri e alle parole della “massa”, intuiamo che tanti grandi aquile solcano il cielo per “strappare a Dio il velo del suo mistero”. Oppure sono “degli uomini che vanno a consegnare di propria mano la loro anima a Dio?” Non si riesce a capire cosa vediamo nel cielo, ma l’obiettivo di chiunque stia volando è quello di andare a “cercare il signor Perelà”.

Come il Cristo, anche “Sua Leggerezza” Perelà è asceso infine al cielo: resta da chiedersi forse cosa lo abbia spinto a scendere tra gli uomini, che hanno dimostrato, per la seconda volta, di non sapersi tener stretto un Messia. Anche stavolta li avrà perdonati?
“Il codice di Perelà” è un romanzo ricco e variegato che affronta la realtà in termini favolistici e affidandosi ad un’allegoria errmetica che fanno sorgere spontanea la domanda: Perelà è un antiromanzo ambiziosamente cristologico?

“Cuore di cane”, i timori della borghesia di Bulgakov

 

22 dicembre 1924. Lunedì 

 
Cartella clinica.
Cane di laboratorio.
Età: circa due anni
Sesso: maschile.
Razza: bastarda.
Nome: Pallino.
Pelo: rado, a ciuffi, color marroncino bruciacchiato
Coda: color crema.
Sul fianco destro, tracce di una scottatura del tutto cicatrizzata. Alimentazione prima di venire dal prof.   : scadente. Dopo una settimana di permanenza in casa del professore: ben nutrito.
Peso: 8 kg (punto esclamativo).

Cuore, polmoni, stomaco, temperatura: normali. 

 
Nel 1925  lo scrittore russo Michail Bulgakov compone Cuore di cane, un racconto previsto per la Rivista Nedra, per la quale erano già stati pubblicati Diavoleide ed Uova fatali.
Cuore di cane è la storia ironica e avvincente dell’incontro avvenuto in una stradina del centro di Mosca,  tra un cane randagio di nome Pallino ed un passante, il medico  Filip Filipovič Preobraženskij che deciderà di portare il cane con sé e  fargli da  padrone. Da questo momento in poi, la vita di Pallino non sarà più la stessa. La condizione di randagio non gli apparterà più e le attenzioni che gli verranno rivolte gli permetteranno di vivere una realtà completamente diversa: Ora è un borghese anche lui.
Pallino, molto affezionato al suo padrone, sarà cavia di un esperimento improbabile, voluto proprio dal padrone stesso e dal suo assistente Bormental. I due decidono di trasformarlo in un uomo, trapiantandogli l’ipofisi ed i testicoli di un uomo morto. E, piano piano, Pallino, viene osservato nella sua assurda trasformazione, quando il suo corpo abbandona le sembianze del cane ed assume comportamenti tipici dell’essere umano. Un essere umano che, precedentemente, era stato assassinato e questo spiegherebbe le farneticazioni di Pallino e i suoi deliri. Questa ‘magia’, però, dura poco e Pallino,  torna a vestire gli abiti del cane domestico.

Quando il cane diventa uomo, l’uomo diventa cane, inevitabilmente non ci si riconosce e nemmeno la scienza puo’ fornire risposte. Ciò che viene originato è il risultato di una snaturalizzazione della società che rischia di perdere tutto. La deriva è prevedibile.

Lo stile scelto da Bulgakov ci ricorda quello adoperato per i manuali scientifici. E ciò viene fatto con uno scopo ben preciso, che è quello di rendere credibile l’assurdo, proprio attraverso il paradosso scientifico. Ogni scelta dello scrittore è compiuta con una finalità ben precisa: I personaggi ed il loro linguaggio non sono altro che l’emblema della società sovietica con le sue stratificazioni e gerarchie. C’è il linguaggio del proletario, quello del professionista borghese, dei pazienti “manichini tardoromantici”, dei compagni burocrati schiavi del regime e di coloro che sono a capo della scala sociale. Con Bulgakov, si parla di vera e propria ”cura linguistica”, che lo avvicina agli scrittori di teatro. La vita, attraverso la satira che egli ne fa, e che è satira del sistema ma anche dell’individuo, viene scandagliata nel suo grottesco realismo.

Ma perché egli percepiva la vita come azione. Per lui la vita fu sempre un atto, un qualche inatteso mutamento, una qualche scoperta
Considerato un racconto ambiguo, e surreale Cuore di cane ci appare come una grande allegoria della storia. Scorrendo le pagine, ci perdiamo in una sovraeccitazione narrativa, leggendo, è come se gli oggetti prendessero forma,  si relativizzassero, attraverso minuziose descrizioni e  spesso determinate connotazioni fisiche dei personaggi bastano a raccontarceli.
Sotto torchio è la società sovietica corrotta, e in particolare la borghesia, ormai alla sbando, che teme il proletariato, verso cui la critica è decisa, totale e palese. Molte opere di Bulgakov, infatti, subirono la censura sovietica negli anni di Stalin (il quale si fece fautore  della  politica di collettivizzazione  al fine di fare della Russia una grande potenza economica) e ci sono pervenute solo dopo la sua morte come anche Cuore di cane, scritto nel 1925 e rimasto inedito, in Russia, fino al 1987, letto già in Italia un ventennio prima.

Ken Follett, il paladino delle minoranze

“Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima, il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola come una trappola da sacrificio, è quindi venuto il momento di cantare una esequie al passato.” (Ken Follett, “I pilastri della terra”).

Ken Follett nasce a Cardiff, nel Galles, il 5 giugno 1949. Primo figlio di Martin Follett, un ispettore delle tasse, e di Lavinia Veenie, ha tre fratelli. Fin da piccolo un interesse che va oltre la sua immaginazione lo spinge ad amare la lettura. Si trasferisce a Londra con la famiglia all’età di dieci anni, vincendo l’ammissione allo University College di Londra, dove studia filosofia e inizia ad impegnarsi nella politica di centro-sinistra. Si sposa con Mary nel 1968, e nello stesso anno nasce suo figlio Emanuele.
Dopo aver intrapreso un corso di giornalismo, inizia a lavorare come apprendista reporter a Cardiff nel South Wales Echo. Tre anni dopo sarà di ritorno a Londra per lavorare nell’Evening News, il telegiornale della sera. La sua passione per la lettura lo porta a iniziare a scrivere romanzi la sera e nei fine settimana come hobby.

Il successo arriva lentamente, e con la pubblicazione di “La cruna del lago” nel 1978un thriller ambientato durante la seconda guerra mondiale, che riscuote un enorme successo. Il libro vince l’Edgar Award e diventa un film per il grande schermo che vede come protagonisti Donald Sutherland e Kate Nelligan.
Verso la fine del 1970, viene coinvolto nelle attività del partito laburista britannico. Durante il suo impegno politico, conosce Barbara Hubbard, un deputato del Parlamento nelle file laburiste che in seguito diventerà ministro della cultura nel governo di Gordon Brown. Ken e Barbara si sposano nel 1984. La coppia vive tra Londra e Stevenage (Hertfordshire), insieme a una vasta schiera di figli avuti nei matrimoni precedenti. Follett è un grande estimatore di Shakespeare, e spesso è possibile incontrarlo alle rappresentazioni tenute dalla Royal Shakespeare Company di Londra. Adora la musica e suona il basso in una band dal nome Damn Right I Got the Blues.

Analizzando le opere di Follett si possono individuare quattro fasi ben distinte. La prima fase comprende “La Cruna dell’ago” e i cinque libri che lo seguono. Ciò che al loro interno troviamo spazia dalla prima guerra mondiale, con l’opera “L’uomo di Pietroburgo”,all’Iran e all’Afghanistan con “Sulle ali delle aquile” e “Un letto di leoni”. Un cambiamento, una varietà che si fonda sull’elemento cronologico e geografico.
La seconda fase comprende quattro romanzi storici scritti sul finire degli anni ’80. L’intricato e appassionante “I pilastri della terra”, ambientato nell’Inghilterra medievale, si svolge parallelamente alla costruzione di una cattedrale, affiancando alla storia della chiesa la vita di svariati personaggi. “Notte sull’acqua” narra le vicende dei viaggiatori che abbandonano l’Inghilterra sull’ultimo volo di linea del Clipper, idrovolante di lusso diretto negli Stati Uniti alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale.“Una fortuna pericolosa” è ambientato nella Londravittoriana, e “Un luogo chiamato libertà” nelle colonie inglesi nord-americane ai tempi della rivoluzione americana. Cambia ancora genere nei tardi anni novanta, con un paio di libri ambientati nel presente usando le tecnologie avanzate come filo conduttore. “Il martello dell’Eden” si focalizza sul terremoto come arma di terrore, mentre “Il terzo gemello” sugli aspetti oscuri delle biotecnologie. Ritornando allo spionaggio in “Codice a zero”, Ken Follett ambienta il romanzo ai tempi del lancio del primo satellite americano.

“Le gazze ladre” e “Il volo del calabrone” vengono invece collocati cronologicamente durante la seconda guerra mondiale. “Nel bianco” è un thriller ambientato ai giorni nostri, in cui un gruppo di terroristi cerca di trafugare un virus da un laboratorio. Il 18 settembre 2007, esce in antemprima mondiale, in Italia, “Mondo senza fine”, seguito ideale de “I pilastri della terra”. Il 28 settembre 2010 è la volta de “La caduta dei giganti”, primo romanzo della cosiddetta “Trilogia del secolo”, che ripercorre tutti i principali fatti storici del Novecento. Il secondo volume, intitolato “L’inverno del mondo”, è uscito in Italia l’11 settembre 2012. La terza ed ultima parte era stata prevista per il 16 settembre 2014.

Ken Follett ha venduto più di 150 milioni di copie dei suoi libri in tutto il mondo.L’elemento che emerge nelle opere dello scrittore e che rispecchia la sua forte personalità, è la componente politica, il suo modo di osservare il mondo e ciò che lo circonda. Chi dovrebbe guidarlo e in che modo. Idee politiche che ritroviamo soprattutto ne “La caduta dei giganti” e “L’inverno del mondo”. In essi tutti i personaggi positivi si identificano con le idee di centro-sinistra, mentre i conservatori non sono in alcun modo giudicati in modo positivo dallo scrittore.
I protagonisti della “Trilogia del secolo” si presentano infatti quali famiglie di minatori e di sindacalisti galles che lottano per i propri diritti contro i proprietari delle miniere, descritti come dei profittatori capitalisti. All’interno di queste opere, oltre ad una profonda critica al fascismo, troviamo anche un’aperta accusa contro il comunismo che, animato da nobili ideali, si trasforma in una dittatura anti-democratica attraverso l’uso della violenza.

Ken Follett porta nelle sue opere la lotta per l’emancipazione femminile, il socialismo, quelli che verranno dall’autore visti come i soli modi per aspirare e giungere un giorno ad una vita migliore. Il punto di vista analizzato da Follett è quindi quello delle minoranze, se così possono essere definite, che lottano per andare avanti, restare a galla, sopravvivere.

“Il socialismo non vuole la rivoluzione, perché l’hanno già provata altri popoli e abbiamo visto che non funziona. Però vuole un cambiamento, e subito”. Parole di buon senso quelle del riformista Follett che, tralasciando l’aspetto sociale/politico delle sue opere, si è dimostrato un grande conoscitore e divulgatore storico.

 

Di Gabriella Monaco.

 

‘La cognizione del dolore’: il male secondo Gadda

La Cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda è considerata come un affascinante esercizio stilistico, ottenuto grazie al suo continuo giocare con i dialetti e le lingue, palese è, infatti, questo tentativo linguistico che, spesso, sembrerebbe addirittura indebolire la struttura narrativa dei suoi romanzi.

Spesso si è parlato di <<Caso Gadda>> per gli anni Settanta del Novecento, fenomeno molto simile al Caso Svevo degli anni Venti. Gadda è uno scrittore che si afferma con molta immediatezza e che conquista sin da subito il suo pubblico. Impossibile è scindere la sua vita di uomo da quella di scrittore. Dopo aver partecipato alla Prima Guerra Mondiale in cui  viene fatto prigioniero, lavora come ingegnere e verso gli anni 30 comincia a pubblicare i suoi primi lavori per la rivista <<Solaria>>.

Lo scrittore trascorre molti dei suoi anni in solitudine, lontano da quelli che erano gli ambienti letterari del suo tempo e da alcuni circuiti. Quest’aspetto connoterà chiaramente la sua figura d’intellettuale. In seguito alle sue esperienze più traumatiche, come quella del fascismo, lo scrittore matura la convinzione che scardinare la realtà sia un dovere più che un compito, perché è ben diversa da ciò che immaginiamo, è sporca, coperta da perbenismo, è una realtà che sconvolge.
Tra leopere più illustri di Gadda, rcordamo: La madonna dei filosofi, L’Adalgisa, Quer pasticciaccio brutto di via Merulana, Eros e Priapo ma molti sono concordi nel riconoscere il suo capolavoro nella Cognizione del dolore, ed è con questo romanzo che conquista una posizione importantissima nel nostro panorama narrativo.

La cognizione del dolore: trama e contenuti del romanzo

Teatro della vicenda de La cognizione del dolore, narrata attraverso uno schema di blocchi narrativi, è un paese immaginario del Sud America, il Maradagal, davvero molto simile al territorio lombardo e, in particolare, alla Brianza. La figura centrale del romanzo è il Figlio misantropo della Padrona della Villa Pirobutirro, Don Gonzalo, che conduce la sua esistenza in solitudine e logorato da un sentimento di ribellione, perseguitato da voci terribili sul suo conto che lo descriverebbero come un essere crudele. Il dottor Lukones è l’uomo che lo visita di volta in volta e al quale Don Gonzalo oppone la sua visione precisa sugli esseri umani e sul mondo, in cui rientrerebbe anche sua madre, proprio tristemente uguale agli altri. Per lei prova certamente affetto ma è pur sempre combattuto, diviso a metà. Ed è su questa scia di disordini e lotte interiori che possiamo leggere le pagine del romanzo. I temi affrontati riguardano, innanzitutto, la demistificazione del mondo e delle sicurezze dei beati possidentes, emblemi di una società sempre più consumistica e priva di valori e Gadda riesce benissimo a mettere a nudo questi uomini, nel loro essere miserabili e vuoti, contenitori inutili. In un secondo momento, quasi come conseguenza, verrebbe da pensare che il secondo tema cardine della sua opera consiste proprio nel suo distacco da tutto questo, l’autore ha la cognizione di essere diverso, di non far parte di quell’ammasso di manichini e, per ovvie ragioni, resta solo, inquietato, turbato profondamente, come risucchiato da una voragine che lo allontana sempre più dalla vita e da quei valori che non riconosce come suoi, ormai  già da molto tempo. Valori che sono di un mondo che si rifiuta di vedere come stanno le cose, non suoi.

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La cognizione del dolore è un romanzo frammentario che medita sulla conoscenza e  sui modi del male quindi, una sorta di trattato filosofico, non a caso il titolo stesso rimanda ad un passo di Schopenhauer, citato un paio di volte da Gadda. Le scene narrative non sono omogenee e si nutrono di simboli, primo fra tutti quello dei Nistitùos ( custodi degli affiliati) che rappresentano i vincoli posti alla libertà, di arcaismi, neologismi e tecnicismi come è nello stile plurilinguista gaddiano caratterizzato da percezioni.

Il paradosso, il grottesco, l’elemento barocco per Gadda sono già insiti nelle cose, nelle nozioni comuni, nelle espressioni di costume, nella realtà, nella storia e nella natura, storia e natura che non sono altro che un ripetersi di un tentativo di ricerca da parte dell’Arte e del Pensiero che trascendono la nostra conoscenza. La cognizione del dolore come ha acutamente rilevato il critico Roscioni, può iscriversi nella tradizione romanzesca umoristica che ha tra i massimi esponenti lo scrittore Sterne.

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La cognizione del dolore è un’opera densa che offre molti spunti di riflessione soprattutto legati alla figura del protagonista, Gonzalo, dominato dal pensiero della morte e ossessionato dalla figura della madre, attraverso il quale Gadda cerca di individuare le ragioni del male che hanno portato il rancoroso Gonzalo ad odiare tutti gli altri, per difendersi dalla vita, dalla quale si è sempre sentito respinto e offeso. L’uomo non risparmia nessuno, nemmeno gli umili e gli sprovveduti (maree d’uomini e di femmine! con distinguibile galleggiamento di parrucchieri di lusso, tenitrici di case pubbliche, fabbricanti di accessori per motociclette, e coccarde), ma la sua è un’ira che nasce, paradossalmente, proprio dal suo raziocinio che lo spinge a criticare la dissocialità altrui, insofferente della stupidità del mondo, ma è consapevole che anche lui è parte di questo triste destino, di questa sofferenza comune.
Questa insofferenza verso il mondo e il destino è la causa principale dell’irritazione di Gonzalo e delle sue invettive, dileggi e pensieri sarcastici non il rapporto conflittuale con la madre, che è solo una conseguenza. Una forma di delirio, in definitiva, un delirio interpretativo come lo indicherebbe la psichiatria, che però non deve essere pensato come una diagnosi negativa, anzi lo stesso Gadda è benevolo verso il suo protagonista, che non distorce la realtà ma è parte delle deformazioni del costume e del tempo.In poche parole quella di Gonzalo è una reazione ad un trauma motivata da moventi logici e razionali sebbene leggendo il romanzo si ha come prima impressione di essere di fronte ad un personaggio delirante ed allucinato.

 

 

Storia di una ladra di libri, di Markus Zusak

Markus Zusak

“Ci sono crimini peggiori del bruciare libri. Uno di questi è non leggerli.” Cit. Josif Brodskij

Nella Germania nazista del 1939  venivano commessi entrambi i crimini. I nazisti, coloro che decidevano chi dovesse vivere, chi dovesse morire, avevano annullato in ogni uomo quella voglia di aprire gli occhi al mattino, quel desiderio di continuare a vivere.

Ma in quel luogo che in qualche modo celebra la morte, accanto alla tomba del fratello più piccolo, Liesel Meminger trova ciò che rende ancora la vita degna di essere vissuta. Un segreto da custodire, un oggetto da nascondere, pagine dietro le quali trovare quella forza portata via perchè l’unica colpa era quella di non appartenere alla “razza ariana”.

Eccolo lì. Un libricino forse abbandonato forse dimenticato, un porto sicuro dove la speranza vive ancora. Liesel lo raccoglie, lo ruba e lo porta con sè. Eccola lì prova tangibile, tra le sue mani gelate più che dal freddo e dalla nave, da una condizione forse ancora oggi incomprensibile. La prova che le parole, un libro, possono risvegliare l’anima, accarezzarla, farla vibrare.

Datemi un libro e sopporterò il mondo.”Cit. Giovanni Soriano, Finché c’è vita non c’è speranza, 2010

E’ così che ha inizio la storia di un amore senza limiti ne confini. La storia d’amore e passione che lega la nostra protagonista alle parole, magiche, potenti, forti, che bruciano e sconvolgono l’anima. In quel mondo dove tutto appare senza senso, dove chi comanda non lascia spazio per comprendere e capire, Leisel sente di avere ancora qualcosa a cui aggrapparsi.

Grazie al padre adottivo che le insegna a leggere, la nostra coraggiosa piccola donna, affronta i roghi nazisti per salvare ciò che resta di vero, puro. Ciò che mai potrà essere cancellato, nemmeno da un fuoco tanto stupido quanto potente. Proprio come  solo la mente umana può essere. Qualcuno ha detto che il più crudele di tutti i predatori è proprio l’uomo. Come potremmo mai negarlo dopo esserci immersi in queste pagine che rappresentano pura poesia, puro amore.

La nostra eroina inizia così il suo cammino verso la salvezza. Presto si ritroverà a rubare i libri dalla biblioteca della moglie del sindaco e a intervenire ogni volta ce ne sia uno in pericolo.

Leggendo queste pagine mi sono chiesta se potrei mai vivere così. Guardando il mio bene più prezioso bruciare, ardere con la sola colpa di…portarmi ad interrogarmi sulla vita, sugli uomini, sul mondo. Poi arriva quella domanda. Avrei la forza di combattere come la dolce Leisel? Forse no. Forse…

Ma ogni istante diventa sempre più difficile da affrontare. Ogni minuto che passa, la paura del sopraggiungere di una morte quasi certa avvolge l’animo del lettore. La vita di Leisel diventa sempre più difficile, ma accanto a lei restano quei compagni di viaggio, quegli angeli custodi. E quando la sua famiglia “fittizia” nasconde un ebreo in cantina, il suo mondo diventa sempre più piccolo e, allo stesso tempo, più grande, curioso, forte, pronto ad esplorare, a capire. Ma cosa c’è da capire in un mondo dove chi decide per la vita e la morte di ogni essere vivente è un “uomo” convinto di appartenere ad una “razza” superiore, l’unica che debba essere salvata. La sola che debba portare alla procreazione della specie umana. La razza ariana.

Le parole che scorrono in queste pagine sono una storia d’amore incondizionata verso le parole stesse. Pagine e pagine di puro amore per la salvezza, la forza, la passione che solo i libri possono scaturire. La bambina accumula libri, accumula parole, accumula ricchezza contro l’ignoranza umana. Contro la sua stupidità. Ma, si sa, l’uomo più è stupido più è pericoloso.

Lo scrittore australiano Markus Zusak, già pluripremiato autore di libri per ragazzi, con questo romanzo rivela un talento promettente nella narrativa per adulti.

La rivisitazione cinematografica ha lasciato perplessi molti critici. Ha emozionato e ha lasciato domande irrisolte. Come accade tante volte, c’è chi ha amato l’opera e chi l’ha ritenuta appena sopra la sufficienza. Ma a questo punto credo che sia una sola la realtà da poter affermare. Le parole scritte, le pagine di un libro, entrano nell’anima di ognuno noi come solo pochi film sono e saranno in grado di fare negli anni avvenire.

Storia di una ladra di libri è una vibrante e avvincente storia d’amore che ha per protagonista la letteratura.

“La biblioteca che probabilmente ogni bibliofilo e, in genere, ogni persona colta hanno sognato almeno una volta nella vita di visitare, è la biblioteca virtuale dei libri perduti, quella biblioteca, cioè, fatta con i testi che sono andati distrutti a causa dell’incuria o della stoltezza umana, e di cui ci è rimasto soltanto un titolo, qualche frammento o niente del tutto.”

Giovanni Soriano, Malomondo, 2013

Di Gabriella Monaco

Che fine ha fatto Mr. Y, di Scarlett Thomas

Scarlett Thomas

“Tiro fuori il libro da sotto il cuscino e mi metto a leggerlo adagio dall’inizio. Rileggo alcune volte la prima riga: ’Alla fine probabilmente non sarò nessuno, ma all’inizio ero conosciuto come Mr Y’.”

Il romanzo “Che fine ha fatto Mr. Y” ,pubblicato per la prima volta nel 2006 e tradotto in Italia nel 2007, porta la firma della scrittrice inglese Scarlett Thomas (“Il giro più pazzo del mondo”, “Il nostro tragico universo”). In un intreccio che lega la suspense di un thriller con le visioni della fantascienza, quest’opera porta in se un misto di filosofia, fisica, scienza e letteratura.

Ariel Manto, studentessa di filosofia della British University,  sta preparando una tesi sugli esperimenti mentali con il suo professore, Saul Burlem. Le sue ricerche la condurranno e la vedranno partecipe di una serie di strane avventure. Momenti inspiegabili anche per la più razionale delle menti avvolgeranno le pagine di questo libro e la vita di Ariel. A scomparire per primo è il suo professore, poi l’università crollerà davanti ai suoi occhi, infine in un negozio di libri usati si imbatterà in una copia di un libro rarissimo e maledetto: “Che fine ha fatto Mr. Y”scritto da Thomas Lumas, uno scienziato del XIX secolo che compiva esperimenti sui poteri della mente umana; il libro è in grado di trasportare chi lo legge nella “Troposfera”, una dimensione fittizia del pensiero che ci fa pensare alla “dottrina delle idee” di Platone. Ariel si imbatterà così nella formula che le permetterà di viaggiare nel tempo e nello spazio attraverso la mente umana. Il solo modo per poter fuggire da quel “luogo” è attraverso una parola-chiave presente nello stesso libro.

La nostra protagonista, e noi con lei, giunge così all’ interno della Troposfera, riuscendo a penetrare l’inaccessibilità della mente umana. E così quel libro, quall’antico manoscritto, rivela ad Ariel la sua maledizione. Una maledizione che colpirà chiunque ne entrerà in possesso attraverso la propria morte.

Ho intrapreso la lettura di questo romanzo con un sorriso beffardo sul volto. Una sfida lanciata a queste pagine con forse l’inconscio desiderio di vederla avverata questa maledizione. E in un pomeriggio d’inverno sono stata accontentata perchè, giunta a metà del libr,o mi sono assopita per la troppa stanchezza per ritrovarmi accanto ad Ariel, in quel mondo sovrannaturale, assurdo, privo di qualsiasi razionalità. Mi sono ritrovata in un luogo oscuro e tenebroso dal quale non sono riuscita ad uscire senza pronunciare quella parola-chiave che da poco avevo appreso attraverso le parole di quella che, a mio parere, è una grande scrittrice. Ero lì, con Ariel, nella Troposfera e non sapevo come uscirne.

Il risveglio è stato strano, pieno di dubbi e domande a cui ancora oggi non so dare una risposta. Forse quelle pagine hanno portato la mia mente a prendere il volo. Forse quelle parole mi hanno colpita così tanto, da portarmi dentro un mondo fantastico senza senso alcuno. Non lo so, non credo di volere una risposta che sia razionale. Questo romanzo è tutto, fuorchè razionale. Ero lì, ne sono uscita. So solo questo.

Prima che decidiate di aprire quelle pagine, ponetevi dunque una sola domanda. Siete pronti per vagare in quelle realtà parallele, a scivolare verso l’ignoto, a conoscere mondi sconosciuti? Siete pronti a scoprire cosa si nasconde dentro la mente umana?

Un libro unico nel suo genere, per gli amanti del mistero e della suspence, e anche per chi volesse appronfondire alcune nozioni di scienza e di filosofia, materie di cui l’autrice sembra essere davvero una profonda conoscitrice, soprattutto per quanto riguardlo il post-strutturalismo e la fenomenologia.Il pensiero umano (e il suo linguaggio) è il vero protagonista del romanzo.

 

“La mente umana è più penetrante che conseguente, abbraccia più di quanto possa legare.”

Luc de Clapiers de Vauvenargues, Riflessioni e massime, 1746

Di Gabriella Monaco

 

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