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‘Il cuore delle cose’ di Natsume Soseki. Un tesoro dimenticato

Nel 1999, all’alba del nuovo millennio, il Los Angeles Times organizzò un simposio dedicato ai “tesori dimenticati” della letteratura del novecento. Kundera, ad esempio partecipò consigliando la lettura de L’uomo senza qualità di Musil (“È attraverso le situazioni dei suoi personaggi che Musil raggiunge un’ineguagliabile diagnosi esistenziale del nostro secolo …”). Al simposio un altro scrittore, Simon Leys, sinologo e storico dell’arte di origine belga, selezionò invece quattro opere, già “giustamente famose”, ma che non hanno “raggiunto il più ampio numero di lettori che chiaramente meriterebbero.”  Fra queste era uno degli ultimi romanzi del forse più celebre degli scrittori giapponesi del novecento, Il cuore delle cose di Natsume Soseki – del 1914, titolo che tenta di rendere un termine giapponese intraducibile, Kokoro.

Leys scrive che non conosceva “altri romanzi scritti nel nostro secolo che posseggano una tale misteriosa semplicità – una stessa sottile e straziante purezza”.

Nell’introduzione alla traduzione inglese dell’opera che Leys consigliava, di Edward McClellan, lo studioso di Soseki Damian Flanagan scriveva (prima di dare la sua definizione del titolo, che “significa ‘cuore’, ma nel senso emozionale e spirituale, piuttosto che fisico della parola”):

“Congratulazioni, caro lettore, per aver appena comprato uno dei più grandi capolavori della letteratura mondiale – tieniti forte, però, perché ti aspetta un giro su delle montagne russe. 

Kokoro è semplicemente fantastico – un Grande Gatsby con più anima – e leggerlo sarà, per alcuni, un’esperienza sconvolgente. Ma il romanzo può anche essere un’anguilla sfuggente, difficile da acciuffare come da tener ferma, ed esplorarla potrà sembrare di errare per un labirinto psicologico pieno di porte ingannevoli. E che a volte tutto di esso sia come un Giano bifronte.”

Consapevole di ciò, qui prendiamo in considerazione una di queste facce, segnata da una tra le più profonde esperienze che caratterizza  il modo di vivere dell’uomo: la colpa. Un aspetto, o una logica che, di nuovo, Simon Leys ha catturato una volta splendidamente:

“Più che la bellezza artistica, la bellezza morale sembra avere il dono di esasperare la nostra triste specie. Il bisogno di trascinare tutto al nostro miserabile livello, di infangare, di deridere, e degradare tutto ciò che ci domina con il suo splendore è probabilmente uno dei tratti più desolanti della natura umana.” 

Da “L’impero della bruttezza”, in Le bonheur des petits poissons, JC Lattes, 2008

Da qui si potrebbe iniziare per fare alcune considerazioni. Per esempio che, in quanto a forza distruttiva, in effetti, l’uomo è probabilmente l’animale migliore che esista sulla terra – ed è proprio contro questo che si basa tutta la saggezza, ogni tipo di morale.

Questo modo di vedere illuminerebbe la nostra concezione, ad esempio, dell’istruzione o l’educazione, tema che ci tocca da molto vicino. E del resto, uno dei due protagonisti, il personaggio che dice “io” e di cui non conosciamo il nome nelle prime due delle tre parti del romanzo di Soseki, è proprio uno studente universitario alla fine della sua carriera accademica.

Il ragazzo incontra, un giorno, in una casa da tè sulla spiaggia in una località balneare non lontano da Tokyo, tra “una grande quantità di teste nere che ci ostruivano reciprocamente la vista”, l’uomo che chiama Sensei – più vicino, annota McClellan, al senso della parola francese maître che a quello dell’inglese teacher,– e sul quale sarà incentrata la terza ed ultima parte. Sensei è un accademico solitario e isolato, in evidente contrasto con il mondo accademico.

Si diceva che l’istruzione, che potremmo chiamare anche “addestramento”, in gran parte oggi orienta gli studenti quasi esclusivamente verso uno sviluppo in senso quantitativo di certe capacità, basandosi su una griglia valutativa di premi o punizioni per la loro dimostrazione esteriore. Ma la bravura di un uomo, non sta meramente in qualche cosa di preciso che sa fare, ma in ben altre capacità, nella pienezza insomma della sua umanità.

L’obiettivo finale è chiaramente il denaro (nel romanzo di Soseki, si trova a proposito questo semplice e illustrativo passaggio: il giovane studente e Sensei stanno discutendo di che cosa sia un uomo “cattivo”; uno, il più anziano, dice:

“Non c’è un vero e proprio stereotipo di uomo cattivo. In condizioni normali, tutti sono più o meno bravi, o, almeno, normali. Ma tentali, ed essi potrebbero cambiare improvvisamente. Questo è ciò che spaventa tanto degli uomini.”

Poco dopo, il giovane, non resistendo più vuole sapere di che tipo di tentazione parla l’anziano, al che quest’ultimo risponde semplicemente: “Il denaro, no? Di fronte al denaro, anche un gentiluomo diventa ben presto un farabutto”); il criterio di valutazione principale se gli studenti siano o meno in grado di fare qualcosa. Nel frattempo, la persona dietro alla cosa fatta può piano piano ritirarsi, fino a scomparire.

 

Alessandro Burrone

About Annalina Grasso

Giornalista e blogger campana, 29 anni. Laurea in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con una galleria d'arte contemporanea.

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